lunedì 6 febbraio 2017

Il confine italo-sloveno


Il confine orientale prima della fine della guerra mondiale
Giovedì 9 febbraio, in occasione del giorno del Ricordo, si terrà a Rubano un importante incontro con Mario Bonifacio, che indossa la doppia veste del partigiano antifascista e quella dell'esule istriano.
Per rendere possibile una migliore comprensione delle vicende personali e collettive che verranno narrate in quell'occasione, pubblichiamo in tre puntate un documento elaborato dall'ANPI.

Da anni, infatti, l'ANPI svolge un'opera di ricostruzione storica e di ascolto delle diverse anime che popolano la complessa vicenda, al fine di superare finalmente gli steccati artificiali e i risentimenti postumi che si sono sedimentati nel tempo e giungere ad una verità storica condivisa. 


IL CONFINE ITALO-SLOVENO. ANALISI E RIFLESSIONI
Documento approvato dal Comitato nazionale ANPI il 9 dicembre 2016



1. Questo documento conclude il proficuo lavoro svolto durante il seminario promosso dall’ANPI nazionale il 16 gennaio 2016 e la successiva elaborazione, proponendosi di realizzare ed  approfondire una riflessione che, alla luce della ricerca, contribuisca a mettere a fuoco le questioni storiche relative alle vicende del confine italo-sloveno, superando così, per quanto possibile, visioni di parte, forzature, rimozioni e risentimenti che per lungo tempo hanno fuorviato il dibattito e non hanno consentito di costruire una memoria critica e comune.
L’obiettivo non è solo quello di fare il punto, ancorché non definitivo, sulle vicende e sugli episodi più significativi relativi alla storia del confine, ma anche quello di contestualizzarli; l’approfondimento del contesto storico, politico e geografico, infatti, è una condizione essenziale per conoscere e comprendere le dinamiche che hanno portato alla grande e contraddittoria mole di eventi drammatici avvenuti nel corso del tempo in quei territori.
Nell'ambito di questa impostazione, una delle condizioni primarie per portare avanti in modo proficuo e senza forzature la riflessione e la ricerca sulla vicenda del confine italo-sloveno riguarda il superamento di un punto di vista strettamente nazionale nell'esame di oltre mezzo secolo di storia delle relazioni tra italiani, sloveni e croati. L’obiettivo precipuo è quello di evitare che prevalga una posizione univoca, condizionata dall'appartenenza statuale. Questo è ancora più vero quando ci si trova a indagare e a studiare una zona multietnica, in cui fattori di tipo politico si mescolano inevitabilmente a quelli culturali. Per questa ragione, si è raccolta la sollecitazione rivolta da Marta Verginella nella relazione introduttiva al Seminario del 16 gennaio, ad adottare una terminologia coerente con un approccio “transfrontaliero” e soprattutto adeguato al fine di scongiurare il rischio di perpetrare l’unidimensionalità storiografica e politica implicita nel punto di vista e nella collocazione geografica e nazionale dell’espressione “confine orientale”. Questa scelta, che comporta invece l’adozione dell’espressione “confine italo-sloveno” o dell’espressione “ex confine italo-jugoslavo”, è tanto più ricca di implicazioni, non soltanto terminologiche, se la si riferisce anche alla genesi della ricorrenza del 10 febbraio come “Giorno del ricordo” e al significato che ha assunto il decennio di celebrazioni avviato con l’approvazione della legge n. 92 del 2004, che la ha istituita. L’articolo 1, infatti, assegna a questa solennità civile il fine di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”; questa dizione era stata peraltro pacificamente adottata dal legislatore, probabilmente sull’onda del consenso pressoché unanime che accomunò le forze politiche di maggioranza e la maggior parte di quelle di opposizione al momento del voto sulla legge.

2. Sotto questo profilo, il trascorrere del tempo non ha ridimensionato la percezione di una palpabile contraddizione tra la portata della riflessione storica, politica ed etica di cui la celebrazione di questa Giornata dovrebbe essere occasione, così come definita nel testo del citato articolo 1, e le reali intenzioni e finalità di chi a suo tempo la propose. Basta scorrere, infatti, la discussione parlamentare dell’epoca, nonché le proposte di legge presentate da parlamentari facenti capo alle forze politiche di centro-destra nella XII, XIII e XIV Legislatura, per ritrovare tutti i ragionamenti più tipici del revisionismo storico di inizio secolo e il ricorso al “paradigma vittimario” di cui ha parlato Giovanni De Luna in un recente saggio. Vi è stato un vero e proprio tentativo di appropriazione dell’insieme degli eventi
drammatici che hanno costellato il periodo della guerra e del dopoguerra nel confine italo-sloveno, finalizzato alla loro trasformazione in una sorta di rendita memoriale da spendere in favore esclusivo di una parte politica, così da strutturare una narrazione mirata alla legittimazione per sé e alla delegittimazione degli avversari. Si tratta di un fatto tanto più grave e discutibile, se si considera che attraverso questa operazione si è cercato di accreditare alcuni falsi storiografici, a partire dalla negazione del carattere storicamente plurale dei soggetti presenti in una regione multietnica e plurilinguistica, in nome di un asserito primato italiano, e da una rilettura delle vicende del periodo 1943-’45 che attribuisce al conflitto di nazionalità un ruolo prioritario rispetto a quello tra antifascismo e nazifascismo. Il fine esplicito delle iniziative legislative sopra ricordate era quello di pervenire ad una riabilitazione di italiani repubblichini e tedeschi impegnati a fronteggiare “l’invasione slava” in un territorio (la Zona d’operazioni del Litorale adriatico, Operationszone Adriatisches Küstenland) peraltro sottratto all’amministrazione del governo della Repubblica Sociale Italiana e governato direttamente da Berlino.  
In altri termini, nell’intento della maggior parte dei promotori della legge, quest’ultima avrebbe dovuto costituire il veicolo di una contrapposizione memoriale, basata su quella che lo storico Alceo Riosa, affrontando i temi della storia giuliana, definì la forza del mito di sé e dell’antimito degli altri, ridotti a mera forza negativa. Questa impostazione della normativa, uniformata alla logica dell’appropriazione delle vittime in funzione di un progetto di rilegittimazione politica, deve pertanto subordinare la ricostruzione dei fatti ad una precisa e circoscritta finalità e non può, di per sé, concorrere ad un ripensamento serio e proficuo degli eventi del confine italo-sloveno tra il 1941 e la prima metà degli anni ’50.
Una tale considerazione è, peraltro, condizionata dalle remore e dalle reticenze in cui la logica dicotomica della guerra fredda – della quale si alimentano le posizioni revisionistiche fin qui tratteggiate – ha imbrigliato la ricerca storica e la riflessione politica. Tale logica ha contribuito essa stessa a promuovere una storiografia modellata sull’idea di centralità dello Stato nazionale e, in molti casi, subalterna alle sue istanze politiche, ed ha ostacolato il superamento della visione etnocentrica che tende a relegare gli “altri” nella dimensione di mero polo negativo nella dialettica mirata ad argomentare in favore della prospettiva nazionale prescelta. L’approccio etnocentrico ha contribuito a conferire centralità ad una ricostruzione della storia delle aree di confine fondata in larga misura sull’individuazione di uno spazio nazionale certo e definito, tale da legittimare conseguenti scelte politiche e culturali.

3. Un primo passo verso il superamento di paradigmi unidimensionali è stato compiuto nel 1993 con la costituzione della Commissione storico-culturale italo-slovena e la redazione di un documento, reso pubblico nel 2001, dedicato ai rapporti italo-sloveni fra il 1880 e il 1956. Il documento è stato oggetto di alcune riflessioni critiche per avere svolto una narrazione parallela dei rapporti tra i due gruppi nazionali e per avere posto in rilievo soprattutto i passaggi nei quali si viene configurando il conflitto tra di essi, tralasciando, invece, di approfondire i contatti, gli incontri, le ibridazioni che si svilupparono e si caratterizzarono a seconda delle aree interessate, sia sul piano dell’amministrazione locale, della cultura, dell’economia che su quello politico ed ideologico.
Al tempo stesso, per la parte che qui maggiormente interessa, il documento della Commissione italo-slovena ha svolto un ruolo molto importante nella definizione dei perimetri cronologici, storici e culturali entro i quali maturarono i drammatici eventi compresi tra l’occupazione italiana della Jugoslavia e l’esodo del secondo dopoguerra, a partire dalle modalità con cui si venne a configurare la fisionomia dei rapporti tra italiani e sloveni nell’area giuliana e del litorale austriaco, sin dalla fase conclusiva della dominazione asburgica. In questa fase, afferma il documento, “il rapporto italo- sloveno appare […] caratterizzato, secondo un modello che si ritrova anche in altri casi della società asburgica del tempo, da un contrasto tra coloro, gli italiani, che cercano di difendere uno stato di possesso (Besitzstand) politico-nazionale ed economico-sociale e coloro, gli sloveni, che tentano invece di modificare o di ribaltare la situazione esistente”. Dal punto di vista socio-economico, questa condizione si traduce nel dualismo oppositivo tra la fisionomia prevalentemente urbana dell’insediamento italiano e quella prevalentemente rurale della componente slovena, anche se questo dato non deve essere considerato in termini assoluti, se si considera la dimensione della presenza rurale italiana in Istria e quella urbana degli sloveni residenti a Trieste e Gorizia.
Attorno a questa polarizzazione, si sono poi andate dislocando le posizioni dei diversi attori politici ed istituzionali: la tendenza dell’amministrazione asburgica a favorire la componente slovena per alimentare un lealismo da utilizzare in funzione di contrasto all’irredentismo italiano, la radicalizzazione di quest’ultimo in senso nazionalistico e il progressivo indebolimento delle posizioni più dialoganti, travolte dallo scoppio della Prima guerra mondiale. Con l’ingresso dell’Italia nel conflitto, infatti, l’irredentismo diventa parte integrante del programma nazionale e, salvo le aperture più o meno strumentali alle rivendicazioni nazionali jugoslave nel congresso di Roma del 1918, di poco successivo alla disfatta di Caporetto, la politica italiana appare proiettata a perseguire gli obiettivi di espansione territoriale definiti con il Patto di Londra, in tendenziale conflitto con le aspirazioni nazionali slovene che, sul finire della guerra, confluiscono nel progetto di unità statale jugoslava.

4. Con la fine della guerra, la vittoria italiana e la dissoluzione dell’impero austro-ungarico, il processo di annessione delle terre cosiddette irredente 
Il confine nel primo dopoguerra
ricalca cronologicamente la crisi dello Stato liberale e, per alcuni aspetti, ne anticipa i caratteri. Dal 1918 i territori occupati dall’Italia in seguito all’armistizio con l’Austria e poi annessi furono soggetti prima ad un governatorato militare e, dopo il 1919, ai commissariati civili. La prospettiva dell’inclusione di territori mistilingui, come il Sud Tirolo e la Venezia Giulia, in una compagine statale che non si era mai misurata con simili realtà, costituiva una novità per l’apparato amministrativo italiano, militare e civile. In questa circostanza si manifestarono le tare tradizionali dello Stato italiano: la diffidenza nei confronti degli strati più deboli della società, la tendenza ad appoggiarsi su gruppi oligarchici, il centralismo come prassi amministrativa e il conservatorismo come opzione politica.
Questi tratti si accentuarono in relazione ad un conflitto tra nazionalità già apertosi sotto il dominio austriaco ed acceleratosi dopo la conclusione delle ostilità.
Né sotto il governatorato militare, né sotto l’amministrazione dei commissari civili si ebbe la capacità politica e culturale di prendere in considerazione una modalità di composizione che riconoscesse alla componente slovena il diritto a mantenere le proprie istituzioni e a partecipare alla gestione amministrativa del territorio in posizione di parità con la componente italiana. La scelta fu quella di sostenere, con maggiore o minore energia e convinzione, le ragioni di un’italianità vittoriosa e dell’assimilazione intesa come subordinazione della componente nazionale slovena all’egemonia italiana. Centralismo e nazionalismo si alimentarono, quindi, a vicenda. Vi furono tuttavia sostanziali differenze sul modo di pensare tale assimilazione sia per quanto riguarda i tempi che i modi. Come ha ricordato Anna Maria Vinci nella relazione al Seminario del 16 gennaio dedicata al fascismo nelle zone di confine, il governatore militare Petitti di Roreto ed altri esponenti dell’amministrazione militare e poi civile cercarono di impostare tale processo in termini di gradualità e nel rispetto di alcune prerogative delle nazionalità presenti nei territori annessi. Durante l’amministrazione civile, molti esponenti di essa, oltre al direttore
dell’Ufficio centrale presso la Presidenza del Consiglio, l’irredentista giuliano Francesco Salata, caldeggiarono l’adozione di un regime di moderata autonomia per le zone mistilingue. Si trattò di posizioni minoritarie, che peraltro escludevano qualunque forma di istituzionalizzazione del plurilinguismo e della plurietnicità, mirando a un’assimilazione che non era messa in discussione nel fine, bensì nei modi di realizzazione e nella minore o maggiore gradualità dei processi.
Non a caso, le amministrazioni militari e civili non mancarono di adottare misure fortemente restrittive e persecutorie nei confronti della componente slovena e delle sue organizzazioni, sostenendo al contrario le manifestazioni di italianità, anche laddove esse erano minoritarie. Occorre peraltro ricordare che la corrività delle forze politiche liberali italiane nei confronti del dilagante nazionalismo fece mancare un adeguato sostegno in loco alle posizioni meno oltranziste, che furono travolte da una radicalizzazione in senso sciovinista.
Ciò spiega anche il successo dello squadrismo fascista nell’area giuliana ed il suo carattere particolarmente virulento. Maturato nel mito della vittoria mutilata e alimentato dalla recente esperienza fiumana, il fascismo giuliano, soprattutto all’indomani del Trattato di Rapallo, assunse su di sé la funzione di difensore del confine raggiunto con la guerra e di rappresentante della civiltà italiana contro gli slavi, ritratti come portatori di una cultura inferiore. Come ha ricordato Anna Maria Vinci nella relazione sopra richiamata, citando Francesco Giunta, ras incontrastato della zona, il fascismo di confine si presentava come assertore e custode dell’italianità, da affermare attraverso la sottomissione militare ancor prima che politica della componente slovena.

5. Durante il regime fascista, i contatti tra l’antifascismo italiano e il movimento nazionale sloveno si erano sviluppati sin dalla seconda metà degli anni ’20, con la collaborazione instauratasi tra il movimento Giustizia e Libertà e il movimento nazionale clandestino sloveno, fondata anche sul riconoscimento da parte italiana del diritto all’autonomia dei croati e degli sloveni e dell’eventuale revisione dei confini; inoltre nel 1934 il Partito Comunista d’Italia siglò con il Partito Comunista jugoslavo e con quello austriaco una dichiarazione comune, nella quale si affermava che la questione nazionale slovena avrebbe dovuto essere risolta in base al principio dell’autodeterminazione dei popoli, da applicarsi anche agli italiani residenti nelle aree a prevalente popolazione slovena. Due anni dopo, nel 1936, il PCd’I aveva sottoscritto un patto d’unità d’azione con il TIGR (Movimento rivoluzionario nazionale degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia) indicando come obiettivo comune la lotta al fascismo e il diritto di sloveni e croati all’autodeterminazione ed alla secessione dall’Italia.


Nel corso della guerra, peraltro, il Partito Comunista sloveno, nell’ambito della lotta di liberazione, ripropose con forza le rivendicazioni nazionali già appannaggio di gruppi come il TIGR che, per la sua attività clandestina e per le azioni terroristiche intraprese in Italia aveva subito pesantemente la repressione fascista, e l’interpretazione sulle modalità di attuazione del principio di autodeterminazione si rivelò assai meno lineare di quanto risultasse nelle dichiarazioni di carattere politico generale. 


Dall'occupazione della Slovenia alla nascita della Zona di Operazione del Litorale Adriatico

6. Nel 1941 le forze dell’Asse aggredirono e invasero, senza dichiarazione di guerra, la Jugoslavia, che venne divisa tra Germania, Italia, Ungheria e Bulgaria. All’Italia vennero assegnate la Slovenia meridionale, annessa come provincia di Lubiana, la costa dalmata, il Montenegro e il Kossovo. Ci soffermiamo in particolare sull’occupazione della Slovenia che creò inevitabili implicazioni dal punto di vista dei confini. In un primo periodo il fascismo applicò una politica moderata, ben diversa dalla prassi tedesca, cercando di tutelare le caratteristiche etniche della popolazione con l’instaurazione di un Alto commissario, coadiuvato da una Consulta con rappresentanti sloveni, l’esonero dal servizio militare, l’uso della lingua slovena nelle scuole elementari, il bilinguismo negli atti ufficiali, che portò all’adesione di un fronte collaborazionista motivato soprattutto da un fervido anticomunismo. Parallelamente si era costituito un vigoroso movimento di liberazione, l’Osvobodilna Fronta (OF).
L’intensa attività sia di sabotaggi che di guerriglia dei gruppi di resistenza, sostenuti anche dalla popolazione civile, fece assurgere questi territori a zone di guerra in cui l’occupante italiano incrementò l’azione repressiva, anche contro i civili, con incendi di villaggi, esecuzioni, torture, deportazioni in campi di internamento istituiti tra il 1941 e il 1943, arrivando a un picco di recrudescenza nel 1942 in seguito alla circolare 3C del gen. Roatta, che portò alla costituzione di una Milizia volontaria anticomunista (Mvac) alle dipendenze degli italiani. Nonostante queste misure di controllo e repressione, le formazioni partigiane, mosse anche dal timore di annullamento delle loro istanze di autonomia, andavano sempre più rafforzandosi ottenendo consensi tra la popolazione ed estendendosi anche nella Venezia Giulia. Alla fine del 1941 a Trieste l’OF disponeva già di una rete clandestina operativa e sottoscriveva con il Partito Comunista italiano un patto di unità, mentre i fascisti giuliani imperversavano con azioni squadriste e incendi di abitazioni.

7. La situazione mutò in seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943 che portò a un’accelerazione di quanto si era andato delineando già nel 1942. Allo sbandamento dell’esercito italiano si unì la completa dissoluzione della presenza statuale che venne soppiantata dall’occupazione della Wehrmacht.
In Istria, a seguito di diverse sommosse, vennero istituiti organismi antifascisti che si sostituivano alle autorità italiane, e si insediarono i comandi partigiani. A Pisino, il Comitato popolare di liberazione proclamò l’unione dell’Istria alla Croazia e furono eseguite una serie di condanne a morte di oppositori al neocostituito sistema con la soppressione sia di fascisti che di rappresentanti dello Stato italiano, di avversari politici e di persone autorevoli della comunità italiana. Questo evento è meglio conosciuto con il termine di foibe istriane. La serie di eccidi che furono perpetrati nell’area dove era attivo il movimento di liberazione croato, non venne intrapresa solo per ragioni politiche e sociali, ma anche per colpire la classe dirigente locale; ciò approfondì la diffidenza e il timore della componente nazionale italiana nei confronti del movimento di liberazione jugoslavo e, più in generale, della lotta di liberazione contro l’occupante tedesco. I timori che ne derivarono vennero poi strumentalizzati dai nazisti, facendo leva sulle angosce legate alla possibilità di cancellazione dell’intera collettività italiana. La drammatica esperienza istriana venne interrotta dalla cruenta occupazione tedesca. Le contrapposte memorie ricordano che per i croati questo episodio rappresenta l’apogeo della liberazione nazionale, mentre per gli italiani, in modo particolare per chi ritornò in Italia, esso costituisce un trauma.
È necessario rammentare che la questione delle foibe è molto articolata e che in generale, come ha ricordato Roberto Spazzali nella sua relazione, va considerata per dimensioni storiche e cronologiche: differenti le foibe istriane del 1943 da quelle del 1945 nella Venezia Giulia che coincidono rispettivamente con la caduta del fascismo e con la fine della Zona di operazione del Litorale adriatico.
Con lo stesso vocabolo vengono definiti episodi tra loro differenti come le stragi, le vendette politiche, l’eliminazione di oppositori nei campi di internamento.

Nell’ottobre del 1943 venne istituita la Zona di operazione
del Litorale adriatico (Operationszone Adriatisches 
Hausser, generale SS comandante del litorale
Küstenland - Ozak) che dipendeva direttamente dal Terzo Reich e comprendeva le province di Udine, Gorizia, Trieste, Lubiana, Fiume, Pola, le isole del Quarnaro, sottratte alla Repubblica Sociale Italiana che ne prese atto a fatto compiuto. Come risulta da un’annotazione del diario di Galeazzo Ciano del 13 ottobre 1941, Mussolini già all’epoca era convinto che “se domani chiedessero Trieste nello spazio vitale germanico, bisognerebbe piegare la testa”. Nel territorio del Litorale, dunque, l’amministrazione tedesca condusse una lotta senza quartiere contro la resistenza slovena e italiana, utilizzando a tal fine anche le aspirazioni stanziali di gruppi ed etnie al seguito della Wehrmacht, incaricati di compiti di repressione svolti con particolare ferocia. In questo quadro, la presenza dei cosacchi in Carnia costituisce l’episodio più noto e tra i più tragici nella storia della guerra di Liberazione nell’area friulana. Non mancarono inoltre, come ha ricordato Alberto Buvoli, tentativi tedeschi di promuovere forme di collaborazionismo mediante l’accoglimento di alcune rivendicazioni nazionali slovene in funzione di contrasto alla resistenza italiana, secondo il principio del divide et impera.
Sotto questo profilo, la vicenda del Nord-Est italiano nel biennio 1943-1945 si presenta come un esperimento totalitario peculiare, per l’azione di una pluralità di soggetti, alcuni dei quali relazionati tra loro con modalità in cui collusione e conflitto appaiono strettamente intrecciati. Come si legge nella relazione della Commissione italo slovena, dopo l’8 settembre, “I tedeschi […] per mantenere il controllo del territorio, fecero ricorso all’esercizio estremo della violenza, per la quale si servirono pure della collaborazione subordinata di formazioni militari e di polizia italiane ma anche slovene”, anche se, come precisa lo stesso documento, il comune atteggiamento collaborazionista non servì a contenere le reciproche diffidenze nazionali, che tornarono presto a manifestarsi con forza.

8. L’analisi dei rapporti tra la Resistenza italiana e la Resistenza slovena e più in generale jugoslava non si presta a giudizi unilaterali o a generalizzazioni che non tengano conto delle specifiche realtà e delle diverse fasi in cui si sviluppò la guerra di Liberazione. Da questo punto di vista, occorre considerare sia i momenti di forte conflittualità tra i due movimenti, sia la collaborazione su basi anti fasciste maturata soprattutto in seno al movimento operaio, anche prima della caduta del fascismo, e che fu alla base dello sviluppo dei rapporti tra i due partiti comunisti, tra le formazioni partigiane slovene e italiane e tra gli organi politici dei rispettivi movimenti di liberazione.
È difatti innegabile che subito dopo l’8 settembre i rapporti di collaborazione tra la Resistenza italiana e quella slovena divennero sempre più complessi; nell’autunno del 1943, la dichiarazione unilaterale di “congiungimento” (Izjava o priključitvi Primorske) dell’intero territorio del litorale adriatico della Slovenia da parte dell’OF, ratificata dal Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia, se da un lato confermava la piena assunzione delle rivendicazioni territoriali slovene da parte del movimento comunista e la loro combinazione con gli obiettivi rivoluzionari e classisti, dall’altro risultava potenzialmente in contrasto con il principio dell’autodeterminazione dei popoli come base per la risoluzione
delle questioni nazionali, affermato nelle dichiarazioni dei Partiti Comunisti italiano, jugoslavo e austriaco del ’34, e successivamente ribadito in altre occasioni nel corso degli anni ’30. Da parte slovena si auspicava il “congiungimento” di quei territori con insediamenti storici sloveni e finalità di tipo rivoluzionario. Trieste diventò un nodo focale perché rappresentava non solo a livello geografico ed economico uno sbocco importante per la Slovenia, ma anche un ponte per la diffusione a occidente degli ideali comunisti. Il Partito Comunista italiano, che comunque non condivideva la posizione slovena, propose di posticipare la problematica al dopoguerra.
Nel periodo intercorso tra l’armistizio e l’estate del 1944, infatti, come ha ricordato Alberto Buvoli, la Direzione del PCI dell’Alta Italia, che fu peraltro un interlocutore privilegiato del movimento di liberazione sloveno, prese nettamente le distanze dalle rivendicazioni territoriali jugoslave, secondo una linea di conciliazione degli interessi nazionali con il primato attribuito
al mantenimento e al rafforzamento dell’unità di tutte le forze antifasciste, ottenendo anche il sostegno dell’ex segretario della disciolta Terza Internazionale, George Dimitrov, che sollecitò il movimento di liberazione sloveno a non compromettere l’unità antifascista con iniziative premature e a rinviare alla conclusione della guerra la definizione delle questioni nazionali. Alla continua trattativa tra i partiti comunisti, si aggiungono in questo periodo gli appelli unitari rivolti al movimento di liberazione sloveno dal CLN Alta Italia, non senza risultati, se si considerano le aperture di un dirigente come Kardelj (sloveno, stretto collaboratore di Tito) sulla priorità da attribuire al consolidamento dell’unità antifascista e sull’opportunità di non porre prima della fine della guerra la questione dell’appartenenza statale di Trieste (febbraio 1944).

Al di là del carattere contingente dell’atteggiamento distensivo dei dirigenti jugoslavi, occorre tenere presente che su di esso influiva la strategia sovietica oscillante tra la volontà di non incrinare l’alleanza internazionale antifascista e l’aspirazione a realizzare un assetto geopolitico per il dopoguerra idoneo ad assicurare il massimo possibile di sicurezza. Ciò può spiegare il sostegno più esplicito offerto alle rivendicazioni territoriali jugoslave a partire dall’estate del 1944, nel momento in cui l’Armata rossa era sul punto di congiungersi alle forze di Tito e, mentre anche la liberazione del Nord Italia appariva imminente, la Gran Bretagna – anch’essa incline a considerare con una certa benevolenza le rivendicazioni territoriali del movimento partigiano jugoslavo – cercava di acquisire il consenso dello stesso Tito ad un eventuale sbarco alleato in Istria, progetto mai abbandonato da Churchill. 

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