Profughi di ieri e di oggi
Pubblichiamo oggi l'intervento di Sergio Basalisco all'incontro di Rubano del 5 febbraio dedicato ai profughi di ogni tempo. Nella sua vibrante narrazione, Basalisco coniuga la ricostruzione storica delle vicende del confine orientale con la microstoria della sua famiglia, fuggita da Pola.
(Sergio Basalisco, febbr. 2016)
(1) Premessa
Ho accettato molto volentieri di portare la mia testimonianza di profugo istriano in un incontro dedicato al tema del profugato. Doloroso fenomeno che ha radici antiche (fu profugo anche Enea quando, con il padre sulle spalle e i figli per mano ,dovette lasciare Troia devastata dai Greci) ed oggi ha inquietanti dimensioni mondiali: secondo i calcoli dell’ ONU i profughi che fuggono da guerre, da catastrofi e da persecuzioni per motivi di razza, di religione, di nazionalità, di opinione politica sono stati 60 milioni nel 2015: circa 50.000 persone ogni giorno hanno dovuto abbandonare la terra in cui erano nati.
E’ bene che non ci si stanchi di riproporre la rievocazione della Shoa degli anni ‘40 (che in Italia fu anticipata dalle leggi razziali del 1938) e dell’esodo giuliano del 2° dopoguerra che coinvolse 350.000 dalmati , fiumani , istriani. Dobbiamo uscire da silenzi opportunisti e da rievocazioni monche e autoconsolatorie.
Il silenzio sui 7.000-10.000 infoibati nelle voragini istriane e sull’ esodo giuliano è durato fino alla legge 92/2004, fortemente voluta dal Presidente Ciampi, che istituì la Giornata del Ricordo. A lungo si ebbe timore di offrire argomenti alla propaganda nazionalista, anti-comunista e anti-slava. Si è dovuto aspettare il 2004 per cominciare a leggere tutte le pagine della storia del nostro confine orientale.
E si è dovuto arrivare al 1992 perché un presidente della Repubblica, Cossiga, andasse a rendere omaggio ai resti dei triestini e degli istriani giacenti per 300 metri cubi nella foiba di Basovizza .
La narrazione delle foibe e dell’esodo resterebbe monca se non fosse accompagnata dalla messa in luce della fallimentare amministrazione italiana delle minoranze che vennero a trovarsi nei territori acquisiti con la prima guerra mondiale. E rimarrebbe una narrazione sviante se non si mettessero in discussione due miti: quello degli italiani brava gente e quello della esemplarità della resistenza jugoslava.
Forse gran parte degli italiani ha sempre mostrato bonomia e senso di umanità nei rapporti con l’altro, in pace e in guerra. Ma non possiamo ignorare che ci furono italiani che nel 1938 accettarono inerti le leggi razziali e se ne resero complici ed altri che denunciarono i vicini ebrei per riscuotere le taglie nazifasciste. Analogamente va ricordato che nel primo dopoguerra gli italiani ebbero trasversalmente un atteggiamento di ammirato rispetto verso le popolazioni tedesche del Sud Tirolo, mentre considerarono con pregiudiziale superiorità le popolazioni slave della Venezia Giulia ritenendole barbare, incivili e irrimediabilmente ostili. Sicché dopo il biennio 1918-20 di cauta politica di assimilazione, l’ Italia nazionalfascista del primo dopoguerra dimostrò di non sapere o non volere tutelare i diritti dei 300.000 sloveni e dei 100.000 croati incorporati nel territorio italiano.
Si proibì agli slavi l’uso della loro lingua a scuola , in chiesa, negli uffici e nei negozi .
Si chiusero le scuole slovene (oltre 500 a Trieste tra il 1920 e il 1930) e quelle croate.
Si espulsero centinaia di insegnanti e di preti sloveni e croati.
Si sciolsero le associazioni culturali e sportive degli slavi giuliani.
Si provocò l’esodo in Jugoslavia di circa 100.000 slavi nati nelle province di Gorizia, Trieste e Pola.
Il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato Fascista (costituito da un giudice e da 4 alti ufficiali della milizia fascista) istituì 130 processi a carico di 544 slavi imputati di sovversione ed emise 40 condanne a morte.
La brutale politica antislava del fascismo fu fallimentare: non italianizzò le minoranze, alimentò tensioni e odi, avvalorò l’equivalenza Italia = fascismo.
In più va ricordato che tra il 1941 e il 1943 il governo fascista aggredì e occupò la Slovenia e la Croazia, procedendo alla distruzione dei villaggi dove operavano i partigiani slavi e all’internamento di massa (in 116 campi).
La semina dell’odio effettuata dal fascismo non fu certamente l’unica causa dell’orribile trattamento che tra il 1943 e il 1945 le armate jugoslave riservarono alle popolazioni italiane della Dalmazia, dell’Istria, di Trieste e Gorizia. La Jugoslavia del comunista Tito, dietro le bandiere dell’internazionalismo e della fratellanza tra proletariato jugoslavo e italiano, perseguì l’obiettivo nazionalista di portare il confine jugoslavo all’ Isonzo e pertanto organizzò la sistematica eliminazione di quanti avrebbero potuto tentare di opporsi all’instaurazione del potere jugoslavo (militari tedeschi e italiani, appartenenti all’ amministrazione italiana, membri non comunisti del CLN e della Resistenza giuliana).
Uno dei campi di internamento |
Processi sommariamente “popolari”, deportazioni, sparizioni e infoibamenti colpirono soprattutto l’antifascismo italiano che avrebbe potuto legittimare le aspirazioni italiane sul territorio giuliano e smentire la propagandistica identificazione degli italiani come fascisti.
A conclusione di questo riassuntivo inquadramento non si vuol certamente indurre a pensare che gli italiani e gli jugoslavi siano geneticamente peggiori o migliori di altri popoli. La ferocia della contrapposizione etnico-nazionalistica si manifestò in molti altri paesi.
In Alsazia – Lorena (regione passata all’impero tedesco nel 1871 dopo la vittoria dei prussiani sulla Francia e poi tornata ad essere francese al termine della prima guerra mondiale) la Francia procedette all’espulsione immediata dei tedeschi immigrati nei 50 anni precedenti: 112.00 tedeschi ricevettero un preavviso di 24 ore per fare i bagagli (non più di 30 kg a testa) prima di essere caricati sui camion e trasportati in Germania.
Alla fine della seconda guerra mondiale 2 milioni di profughi tedeschi furono cacciati da Polonia , Ungheria e Romania ed 1 milione di profughi polacchi furono espulsi dai territori ceduti alla Russia,
E’ la storia a dirci che chi vince la guerra raramente si predispone a gestire paci durevoli. L’ Unione Europea dopo secoli di odio e sangue ha regalato agli europei 70 anni di pace , un miracolo di cui non sempre siamo consapevoli.
(2) Microstoria
Sono diventato un esule la mattina del 6 febbraio 1947 sulla motonave Toscana che lasciava il porto di Pola, diretta a Venezia con la mia famiglia e altri 2000 profughi polesi ,ormai consapevoli che entro qualche giorno l’ Italia avrebbe firmato il trattato di pace impostole dai vincitori e avrebbe ceduto alla Jugoslavia gran parte del territorio giuliano acquisito nel 1918, al termine della Grande guerra in cui 680.000 soldati italiani erano morti ( insieme a centinaia di migliaia di civili) ed altri 700.000 erano stati resi invalidi (cfr. M. Thompson, La guerra bianca: vita e morte sul fronte italiano 1915-1919, Saggiatore, MI 2009).
Coltivare la memoria delle vicende legate alle foibe e all’esodo giuliano senza conformismi nazionalistici o ideologici si rende possibile se si ha la consapevolezza che quelle vicende vanno situate nel quadro degli orrori perpetrati nel Novecento europeo. Nel secolo dei soldati soffocati dai gas nelle trincee della Grande Guerra a Ypres, a Verdun e sul monte San Michele, dei milioni di sterminati nei lager hitleriani e nei gulag staliniani, dei 230 ragazzi antifascisti rastrellati e impiccati con i cavi del telefono sulla spianata di Bassano, dei 5000 militari italiani che a Cefalonia furono fucilati, bruciati, annegati per non aver accettato di proseguire la guerra a fianco dei nazisti e dei 10.000 musulmani bosniaci massacrati dalle truppe serbe a Srebrenica nel luglio 1995. L’ Europa e il mondo hanno bisogno di ricordare e far ricordare questi orrori, nel tentativo di liberarsi della pericolosa propensione alla catalogazione gerarchica degli umani (cfr. L.Cavalli Sforza- D. Padoan, Razzismo e Noismo , Einaudi, TO 2014) in portatori di sedicenti civiltà superiori e votati al dominio, necessariamente contrapposti ai barbari privi di cultura e di storia, destinati al servaggio o allo sterminio. Le giornate della Memoria e del Ricordo eviteranno il pericolo di scadere nella ritualità se recupereranno l’insegnamento di Walter Benjamin: Avremo veramente elaborato il lutto solo quando saremo riusciti a comprendere i dolori e le speranze di tutte le vittime.
Nella Venezia Giulia asburgica le
popolazioni italiane, prevalenti a Trieste e nelle città costiere dell’Istria, e quelle slovene e croate, maggioritarie nell’entroterra, avevano sviluppato una convivenza
Confine asburgico |
Il confine dopo la grande guerra |
Il confine attuale |
sostanzialmente pacifica fino agli anni Sessanta dell’ Ottocento. Molti slavi cercavano e trovavano lavoro sulla costa, imparavano l’ italiano e con i vicini italiani avevano in comune la religione e un diffuso rispetto per il carismatico imperatore Francesco Giuseppe e la sua buona amministrazione dei territori. Qualcosa di questa abitudine a vivere insieme deve essere sopravvissuto persino più tardi se potè accadere, per esempio, che due miei zii , accesamente irredentisti, si unissero a donne di famiglia croata. Ma è indubbio che anche nella multietnica Pola (dove il censimento del 1890 registrò la presenza di 19.000 italiani, 10.000 croati, 4500 austriaci e 1500 sloveni) finì per prevalere la netta contrapposizione etnico-nazionalistica tra italiani e slavi che improntò le associazioni religiose e sportive, le casse di credito, le bande musicali, i circoli di lettura. In un clima che fatalmente isolò i circoli operai tendenzialmente internazionalisti.
Mio padre era un “regnicolo”, proveniente cioè dalle vecchie province italiane, terrone
di Lucania, classe 1899, tolto – a causa degli eventi della prima guerra mondiale- agli studi di ragioneria e inviato prima sulla linea del Piave e poi a Trieste e subito dopo a Pola, dove conobbe e sposò mia madre. Se mio padre poteva essere definito come politicamente refrattario, con un atteggiamento da meridionale perplesso e scettico di fronte ai rivolgimenti politici, molto più caratterizzata era la famiglia di mia madre. Il nonno materno era un operaio dell’ arsenale navale di Pola , che aveva messo insieme tre figli di un precedente matrimonio con i quattro avuti da mia nonna, nata a Rovigno in una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Dei tanti fratelli di mia madre , i più vecchi vissero la loro giovinezza da cittadini dell’ imperial – regio governo: Orfeo girava il mondo come fuochista su navi mercantili battenti bandiera austriaca; Umberto per parecchi anni fece la spola con Vienna dove rappresentava gli istriani nel sindacato austro-ungarico dei dipendenti pubblici e , dopo il 1918, fu tra i primi ad aderire all’irredentismo nazionalista e al partito fascista. Eugenio aveva studiato medicina a Graz e tra 1914 e 1915 si iniettò il tracoma per non essere arruolato dagli austriaci; esercitò poi la sua professione di medico ad Albona, da dove fuggì nel 1944 per riparare nel Veneto. Edgardo e Bruno, i più giovani fratelli di mia madre, parteciparono attivamente alle manifestazioni antislave organizzate dai fascisti negli anni ’20. Bruno si laureò in economia e commercio ed ebbe ruoli dirigenziali nella burocrazia ministeriale fascista e post-fascista.
Si può utilizzare la storia di questa famiglia, forse non troppo diversa rispetto a quella di altre famiglie istriane, per affermare che gran parte degli italiani della Venezia Giulia era tendenzialmente fascista? Sarebbe azzardato dirlo, anche se spesso ci si è serviti di questa sbrigativa identificazione per spiegare un esodo che ha coinvolto centinaia di migliaia di persone. Credo si debba essere molto più prudenti e non si possa dimenticare che a Pola dal 1944 risulta attivo un Comitato di Liberazione Nazionale cui partecipavano tutti i partiti antifascisti, senza distinzioni tra italiani e slavi, anche se poteva essere difficile per gli italiani aderire ad un movimento di fatto egemonizzato, specie nelle campagne, da formazioni apertamente schierate per l’annessione dell’ intera Venezia Giulia alla Jugoslavia.
Dall’autunno 1943 l’Istria , con le province di Trieste, Gorizia e Lubiana, era entrata far parte della zona di operazioni militari denominata “Litorale Adriatico”, affidata al protettorato del carinziano Friederich Reiner e alla polizia comandata dal generale Globocknik, responsabile in Polonia delle operazioni volte allo sterminio degli ebrei e a Trieste regista dell’avviamento della risiera di San Sabba come centro di detenzione ed
eliminazione di ebrei e di prigionieri politici. A seguito di questo atto con cui fin da allora il nazi-fascismo mise in discussione la piena appartenenza del territorio giuliano all’ Italia, il comando tedesco nel marzo 1945 decise di fare del porto e della città di Pola una zona di resistenza ad oltranza. Pertanto impose immediatamente l’arruolamento obbligatorio della popolazione adulta maschile nel servizio territoriale di difesa (si trovarono costretti a farne parte anche mio padre e mio fratello Fulvio, diciannovenne) e lo sfollamento degli anziani, delle donne e dei bambini nei centri minori dell’ Istria. Caricati in fretta e furia su vagoni bestiame, mia madre e noi 5 bambini e ragazzi (tra i 3 e i 16 anni), fummo spediti insieme a migliaia di altri polesi verso Buje e Pirano sulla linea Pola-Pisino-Capodistria che correva all’interno della penisola istriana dove era sempre più debole il controllo militare dei nazi-fascisti: di giorno il convoglio era mitragliato dagli aerei alleati, di notte la nostra esigua scorta militare aveva delle scaramucce con i partigiani slavi; un paio di volte il vagone carico di pietre che precedeva la locomotiva saltò sulle mine partigiane e ogni volta bisognava lungamente aspettare che la linea fosse ripristinata.
Ho ancora nitido il ricordo del primo impatto con i partigiani jugoslavi che sfilano per le vie di Pirano a mezzogiorno del 27 o forse del 28 aprile 1945 e che io e mio fratello incontriamo all’uscita dalla scuola elementare. Ed è la spinta di antiche paure che ci fa correre verso casa piangenti per annunciare a nostra madre “se qua i s’ciavi!”. Forse nello stesso pomeriggio gli altoparlanti della UAIS (Unione antifascista italo-slovena) impongono l’esposizione alle finestre del tricolore italiano con la stella rossa, insieme alla bandiera jugoslava e alla bandiera rossa . Di lì a qualche giorno ci viene ordinato di lasciare nelle 24 ore Pirano e di ritornare a Pola. Ci imbarcano su un piccolo battello croato che naviga lentissimamente lungo costa. Con il fiato sospeso scrutiamo i banchi di mine galleggianti, nella speranza di non incappare in qualche ordigno disancorato e vagante. Le operazioni di sbarco in un porticciolo vicino a Pola avvengono in modo talmente frettoloso e sgangherato che, con grande disperazione e furia di mia madre, è lasciato cadere in acqua proprio il prezioso cassone dove erano stati riposti la farina e gli altri viveri faticosamente acquistati dai contadini del piranese.
Tra l’inizio di maggio e il 12 giugno 1945 (quando a seguito dell’accordo Alexander-Tito le truppe jugoslave si ritirano da Trieste e da Pola) viviamo sotto l’occupazione jugoslava
e sperimentiamo la sistematica realizzazione del progetto politico di Tito e del partito comunista jugoslavo. L’accordo dell’aprile 1944 tra la Resistenza italiana(CLNAI) e quella jugoslava aveva rinviato alla fine della guerra di liberazione la definizione dei confini nelle zone etnicamente miste. Ma nel successivo autunno si era verificato un clamoroso cambio di rotta e la Jugoslavia aveva presentato chiaramente il suo proposito circa la Venezia Giulia attraverso le dichiarazioni settembrine di Kardely (“Diventerà nostro territorio tutto ciò che si ritroverà alla fine della guerra nelle mani del nostro esercito”) e del ministro degli esteri del governo partigiano jugoslavo, Smodlaka, che prospettò la revisione del confine orientale come condizione preliminare per una duratura pace italo –jugoslava: “La Jugoslavia democratica è disposta a tendere la mano alla nuova Italia e a salutarla con le parole “Ripassate l’Isonzo e torneremo fratelli”… Gli studi della storiografia giuliana e in particolare le ricerche dell’ Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nella Venezia Giulia (Valdevit, Pupo, Spazzali, Troha,..) permettono di dire oggi che le durezze e le vere e proprie atrocità dell’occupazione jugoslava non possono unicamente spiegarsi come risposta ad antiche e vituperevoli ingiustizie di cui si era resa responsabile l’amministrazione fascista. La realizzazione del progetto annessionistico prima di ogni negoziazione internazionale comportò nella primavera 1945 l’imposizione del controllo jugoslavo sull’intera Resistenza giuliana, sottratta alla direzione del comitato di liberazione nazionale dell’ alta Italia (CLNAI), e nei territori occupati ispirò il ricorso alle liste dell’ OZNA , la polizia segreta jugoslava, per “normalizzare” l’occupazione eliminando gli appartenenti all’apparato amministrativo italiano (insegnanti , ferrovieri, impiegati delle poste , guardie di finanza, etc) .
Il piano di Tito |
In quei 40 giorni mio padre (fino al 1942 capitano dell’esercito italiano, in quanto richiamato alle armi) e mio fratello maggiore (costretto all'arruolamento obbligatorio nel servizio territoriale di difesa tedesco) sono nelle liste dei ricercati dall’OZNA che opera soprattutto con rastrellamenti notturni e che di notte perquisisce 3 o 4 volte la nostra casa, nel terrificato silenzio di mia madre e di noi bambini. Si salvano nascondendosi presso conoscenti. Non si salva il figlio di una famiglia amica, antifascista e studente di filosofia; lo prendono all'ospedale dove è ricoverato per un’operazione chirurgica e diventa uno delle 827 persone fatte scomparire a Pola nei 40 giorni di occupazione jugoslava (il loro numero è attestato dall'indagine del Governo militare alleato nel 1947).
Sono comprensibili il tripudio con cui Pola accolse il 13 giugno 1945 i reparti anglo-americani e, da quel momento, l’ apprensione con cui la città seguì gli incontri dei ministri degli esteri delle potenze vincitrici, che preparavano il testo del trattato di pace con l’ Italia. Mentre Tito, forte della sua posizione di alleato della coalizione anti-nazista, pretendeva risolutamente l’intero territorio della Venezia Giulia fino all’ Isonzo, anche come compensazione del cattivo trattamento delle minoranze slave da parte del regno d’Italia e dell’aggressione condotta dal governo fascista alla Jugoslavia, in Italia l’ Assemblea Costituente e il governo confidavano che il ruolo svolto nella Resistenza e nella cobelligeranza avrebbero facilitato un trattamento non punitivo. Il 2.07.1946 l’Assemblea costituente approvò all’unanimità un ordine del giorno riaffermando l’inscindibile unità della Patria nella sua gente e nei suoi confini (cfr. C. MAGGIO, Il confine orientale italiano nei verbali dell’ Assemblea costituente, Svevo, TS 2005). Il giorno dopo il consiglio dei ministri degli esteri delle potenze vincitrici respingeva sia la proposta russo-jugoslava di riportare il confine orientale italiano all’Isonzo, sia quella anglo-americana sostanzialmente converg
ente nell’ individuare un confine
etnico (linea che doveva lasciare il meno possibile di minoranze sotto sovranità straniera) e nell’assegnare all’Italia Gorizia, Trieste, l’Istria occidentale e Pola. Il consiglio dei ministri delle 4 potenze faceva propria la proposta francese che rinnegava la linea etnica e il principio della consultazione referendaria delle popolazioni (solennemente dichiarato nella Carta atlantica), internazionalizzava il Territorio Libero di Trieste e attribuiva alla Jugoslavia più dell’ 80 % del territorio giuliano.
La linea Morgan |
Avendo vissuto la dura esperienza dell’occupazione jugoslava e avendo visto l’andamento delle trattative di pace, fin dal luglio 1946 molti polesi manifestarono l’intenzione di lasciare la città. Il governo De Gasperi convocò i rappresentanti del CLN di Pola e chiese agli italiani dell’intera Istria un ripensamento in nome degli interessi nazionali, anche nel timore che nelle disperate condizioni in cui versava l’Italia prostrata dalla guerra e dalla sconfitta l’arrivo di 300.000/350.000 profughi giuliani sarebbe potuto diventare “un salto verso l’ignoto”. Ma le notizie della radio e delle stampa circa un possibile e imminente passaggio di poteri tra anglo-americani e jugoslavi a Pola in contemporanea con la firma del trattato di pace, stabilita per il 10 febbraio 1947, crearono allarme. Sicchè dal dicembre 1946 il CLN di Pola, in accordo con il governo italiano, istituì gli uffici per l’esodo, organizzò la distribuzione dei certificati anagrafici e scolastici e avviò intese per il nolo di navi. Ai profughi di Pola si concesse per 3 mesi un sussidio governativo mensile di lire 300 per famiglia , oltre ad un contributo una tantum di lire 1000 per ciascun componente del nucleo famigliare. Nel corso del 1947 lasciarono Pola 28.000 abitanti (su 30.000).Era il corrispettivo di 9000 famiglie. Già alla fine di febbraio se ne erano andati 5 proprietari di albergo su 5, 6 proprietari di pasticceria su 6, 27 proprietari di caffè su 29, 126 osti su 156 e persino i 5 tipografi del quotidiano filo-jugoslavo “Il nostro giornale”, dove rimasero soltanto due redattori.
La motonave “Toscana” iniziò i viaggi dell’esodo il 1° febbraio 1947, trasportando ogni volta 1500-2000 profughi. La mia famiglia partì con il 2° viaggio del “Toscana” e con noi furono traghettate verso l’Italia un buon numero di vecchiette dell’ospizio di mendicità. Partita dal porto di Pola alle 8 di un mattino insolitamente nevoso, la nave arrivò a Venezia intorno alle 16. Erano circa un migliaio i profughi che la mattina successiva con noi ripartirono da Venezia su un lungo convoglio ferroviario. Noi scendemmo con molti altri a Padova e trovammo una città in festa per la ripresa delle celebrazioni goliardiche dell’ 8 febbraio. Non ci mettemmo molto a scoprire un ‘ Italia poverissima e tormentata da un inverno straordinariamente freddo. C’era una grande penuria di legna , carbone e gas : a Padova l’erogazione del gas si limitava a 3 ore al giorno e dalla lettura de “Il Gazzettino” del 26 febbraio si apprendeva che sulla strada Stanghella-Solesino la polizia aveva sorpreso 150 uomini intenti a segare gli alberi del bordo stradale e ne aveva arrestato 11. Nell’Italia che aveva una gran voglia di dimenticare rapidamente la guerra, reduci e profughi furono accolti con inevitabile freddezza. Ma non deve essere ignorato che molti Comuni si resero disponibili ad accogliere i profughi. Circa un centinaio di impiegati pubblici di Pola trovarono sistemazione e lavoro a Padova. Trenta anziani della Casa di ricovero di Pola furono accolti in quella di Padova e 50 orfani provenienti dall’orfanotrofio francescano di Pola furono inseriti in analogo istituto di Cittadella (alla fine di quello stesso febbraio la questura di Padova trovò 5 di loro alla periferia della città, decisi a ritornare a Pola a piedi). Anche l’ ANPI e la CGIL organizzarono una grande manifestazione nazionale di denuncia del duro trattato di pace imposto all’ Italia e di solidarietà con i profughi. A Padova la Camera del lavoro e l’ ENAL dettero vita ad una settimana di solidarietà con i giuliani, mentre nelle scuole della città e all’ Università si raccolse danaro per i giovani istriani. E poi ci fu la generosità dei singoli. Nessuno della mia famiglia potrà mai dimenticare che negli anni di maggiore difficoltà, quando mia madre al termine della giornata si diceva e ci diceva con stupefatta soddisfazione “Anche oggi siamo riusciti a mettere qualcosa in pentola”, abbiamo incontrato a Padova un alimentarista , il signor Ferruccio Tomat, che aveva bottega di casolino in via Barbarigo e che di fronte all’imbarazzata dichiarazione di mio padre che non sarebbe riuscito a pagare puntualmente alla fine di ogni mese tutte le ingenti forniture di pane ,zucchero, marmellata, salsa e pasta registrate sul libretto e delle quali campava una famiglia di otto persone, disse semplicemente “Lei non si preoccupi. Mi pagherà quando ne avrà”. E pazientò per anni interi senza chiedere garanzie a noi sconosciuti, senza esprimere la benchè minima sollecitazione, senza mai rifiutare nulla del molto che ogni giorno andavamo a prendere nel suo negozio.
Usciti dalla stazione ferroviaria di Padova vagabondammo due settimane per le vie della città, apprezzando la funzione protettiva dei portici :gli alberghi erano pochi e quasi tutti riservati agli ufficiali alleati, gli affittacamere erano saturati dagli studenti universitari e ovviamente nessuno amava ricevere una famiglia composta da due genitori , due figli grandi e 4 figli ancora bambini. Sicchè alla sera dovevamo dividerci per trovare posto; alla mattina ci si ritrovava , ciascuno con una borsa proporzionata alla statura e al peso e si riprendevano i giri alla ricerca di un alloggio qualsiasi. Infine lo trovammo a poca distanza dal Duomo. Si trattava di due stanze da letto poste in un vecchio edificio malamente rabberciato dopo i guasti dei bombardamenti, sotto un tetto cola-pioggia, con un cucinino , un bagno e un ingresso reso polivalente in quanto destinato a funzionare nelle varie ore del giorno come camera da pranzo , studio, intrattenimento , gioco e letto. Il proprietario pretese e ottenne sopra l’affitto una indennità una tantum di buona entrata, decisamente esosa: 250.000 lire di allora; nel contempo rifiutò qualsiasi intervento di manutenzione. Sicchè nei mesi piovosi allineavamo capaci pentole per accogliere l’acqua che scendeva dal soffitto e in quelli più caldi noi bambini ci dedicavamo alla caccia dei topi che si affacciavano dalle assi sconnesse del pavimento. Ma era pur sempre una casa. Mio padre potè maggiormente impegnarsi nella difficilissima ricerca di un’occupazione, ricerca particolarmente ardua per uno che aveva quasi 50 anni e non aveva certamente potuto portare con sé i clienti del suo negozio di abbigliamento di Pola. Avendo vista respinta la richiesta di emigrazione in Australia, dovette continuare la sua ricerca per molti anni e come tanti altri italiani passò molto lentamente dalla condizione di disoccupato , negoziante , ex-negoziante a seguito di fallimento concordato, sub-rappresentante di commercio a quella di lavoratore dipendente, regolarizzato alla fine degli anni Cinquanta ovvero all’inizio del “miracolo economico”. Noi bambini riprendemmo la scuola, incontrando nuovi compagni e nuovi insegnanti, tutti troppo impegnati nell’affrontare un duro presente e nel decifrare un futuro incerto. Quasi nessuno ci chiese da dove venivamo e come era il luogo che avevamo lasciato. Noi probabilmente non avevamo voglia di parlarne: eravamo molto presi da tutto il nuovo che così rapidamente ci era venuto incontro e non faticammo a far amicizie tra i nuovi compagni di scuola. Al pomeriggio mentre si sbrigavano i compiti per casa ci capitava spesso di sentire una trasmissione radiofonica dedicata alle popolazioni dell’esodo, che esordiva immancabilmente con un tonante “Fratelli giuliani e dalmati, è la Patria che vi parla!” Mio padre , se c’era, sghignazzava e aggiungeva “Attenti al portafoglio !”. C’era poco posto per la retorica nazional- profughista a casa nostra e probabilmente percepivamo ( forse troppo sbrigativamente ) come inconcludente e lamentosa l’attività delle associazioni dei profughi, al punto che non frequentavamo né le associazioni, né i loro raduni. Indubbiamente vissero vicende ben più dolorose delle nostre i profughi giuliani che , nei 130 campi di raccolta precaria disseminati nella penisola e attivi tra il 1945 e il 1970(!), (7) patirono i disagi della promiscuità e della forzata inattività., mescolati ai profughi italiani provenienti da Grecia, Libia, Algeria e Tunisia.
L’esodo ebbe diversificate cronologie a Zara, a Fiume, a Pola e tra i 150.000 che esercitarono l’opzione nell’Istria ormai sotto amministrazione jugoslava, abbandonando case, campi, lavoro, risparmi in banca,... Tuttavia ovunque derivò da una decisione collettiva ( a Pola l’esodo fu coordinato dal CLN, altrove dalle comunità locali), coinvolse la quasi totalità della popolazione italiana (i 250.000 italiani censiti in Venezia Giulia prima della guerra si riducono ai 15.000 di oggi) e riguardò tutte le classi sociali: anche la classe operaia, che inizialmente aveva visto positivamente il costituirsi dello stato partigiano jugoslavo, di fronte alla realtà del regime scelse l’esodo. La Commissione storico-culturale concordata tra Italia e Slovenia per studiare le vicende svoltesi nella Venezia Giulia tra il 1880 e il 1956, nella relazione conclusiva pubblicata nel 2001 ha affermato: L’esodo degli italiani dall’Istria si configura come aspetto particolare del processo di formazione degli stati nazionali in territori etnicamente compositi. Quel processo condusse alla dissoluzione della realtà plurilinguistica e multiculturale esistente nell’ Europa centro-orientale e sud-orientale. Il fatto che gli italiani abbiano dovuto abbandonare uno Stato federale e fondato su di un’ideologia internazionalista, mostra come nell’ambito stesso di sistemi comunisti le spinte e le distanze nazionali continuassero a condizionare massicciamente le dinamiche politiche”
La comunità istriana e giuliana degli esuli ha avuto indubbie difficoltà a farsi ascoltare e capire. Le contrapposizioni ideologiche della Guerra Fredda hanno contribuito a determinare più di una strumentalizzazione: i governi centristi hanno corteggiato i profughi giuliani e il loro voto con politiche clientelari (facilitazioni pensionistiche, posizioni di privilegio nell’accesso ai concorsi per il lavoro nelle amministrazioni pubbliche,..) ed hanno ignorato le comunità italiane rimaste volenti o nolenti al di là della frontiera; la destra ha capitalizzato le vicende degli infoibamenti e dell’ esodo a riprova delle conclamate malefatte del comunismo; la sinistra a lungo ha teso a spiegarle esclusivamente come conseguenza dell’oppressione esercitata dalla dittatura fascista sulle popolazioni slave, mentre il PCI di Togliatti da una parte si schierava per l’italianità di Trieste e dall’altra si opponeva con contorte motivazioni all’ipotesi - sostenuta da Nenni , da Lussu e da Valiani- del plebiscito per l’autodeterminazione delle popolazioni giuliane. Bisogna arrivare ai giorni nostri perché tra i post-comunisti si manifesti una posizione ispirata non ad un revisionismo strumentale che tutto occulta nel nome della riconciliazione nazionale, ma più promettentemente alla volontà di ricercare e capire leggendo tutte le pagine della storia. Come fa da ormai molti anni l’ Istituto storico del movimento di liberazione nella Venezia Giulia e come sta facendo l’ ANPI veneto con la promozione di studi e con la ricerca di occasioni di confronto con le associazioni dei profughi .
Oggi, nonostante il ricorrente manifestarsi di etnocentrismi tribali che vivono la differenza come ragione di scontro, non si può non sperare che la caduta delle contrapposizioni ideologiche consenta una vera ricomposizione della storia che metta fine alle omissioni faziose e finisca per rendere nuovamente possibile quel pluralismo etnico-culturale e quella convivenza pacifica tra italiani, slavi , tedeschi, ebrei, ungheresi, che sono durati nella mia Istria fino alla metà dell’Ottocento e hanno regalato alla regione giuliana la straordinaria ricchezza culturale propiziata ieri dal meticciato di Tommaseo, Stuparich, Slataper , Svevo-Schmitz e ,in tempi più vicini, di Tomizza, Magris, Pahor , Bettiza, Matvejevich , Kovacich e molti altri .
Letture suggerite
VALDEVIT,”Foibe.Il peso del passato”,Marsilio VE 1997 ; MORI-MILANI, “Bora”, Frassinelli, CO 1998; CRAINZ, “Il dolore e l’esilio”, Donzelli, Roma 2005 ; BURGWYN, “L’impero sull’ Adriatico. Mussolini e la conquista della Jugoslavia”, Libreria editrice goriziana, GO 2006; CATTARUZZA, “L’Italia e il confine orientale”, Il Mulino,BO 2007; SANSONE-TOTA, “Palacinche.Storia di un’esule fiumana”, Fandangolibri, Roma 2012
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