giovedì 11 febbraio 2016

Il racconto dell'esodo di S. Basalisco



Profughi di ieri e di oggi




Pubblichiamo oggi l'intervento di Sergio Basalisco all'incontro di Rubano del 5 febbraio dedicato ai profughi di ogni tempo. Nella sua vibrante narrazione, Basalisco  coniuga la ricostruzione storica delle vicende del confine orientale con la microstoria della sua famiglia, fuggita da Pola. 

(Sergio   Basalisco,  febbr. 2016)
(1) Premessa
Ho   accettato  molto  volentieri  di portare la  mia  testimonianza   di profugo  istriano   in un incontro dedicato al tema del profugato.  Doloroso fenomeno che ha radici antiche (fu  profugo  anche Enea  quando, con il padre sulle spalle e i figli per mano ,dovette  lasciare  Troia  devastata  dai Greci) ed oggi  ha  inquietanti dimensioni  mondiali: secondo i calcoli dell’ ONU  i  profughi che fuggono da  guerre, da  catastrofi  e da persecuzioni  per motivi di razza, di religione, di nazionalità, di  opinione politica  sono  stati  60  milioni  nel 2015: circa  50.000  persone  ogni  giorno  hanno  dovuto  abbandonare  la  terra  in  cui  erano    nati.
E’  bene che non ci si stanchi di riproporre  la  rievocazione  della  Shoa   degli  anni ‘40 (che in Italia  fu  anticipata  dalle  leggi  razziali  del  1938) e  dell’esodo  giuliano  del  2°  dopoguerra  che  coinvolse  350.000  dalmati , fiumani , istriani.  Dobbiamo  uscire  da  silenzi  opportunisti   e  da  rievocazioni  monche   e  autoconsolatorie.
Il  silenzio  sui  7.000-10.000  infoibati  nelle  voragini  istriane  e  sull’  esodo  giuliano  è  durato  fino  alla   legge 92/2004, fortemente  voluta  dal  Presidente  Ciampi, che  istituì  la  Giornata  del  Ricordo. A  lungo  si  ebbe  timore  di  offrire  argomenti  alla  propaganda  nazionalista, anti-comunista  e  anti-slava. Si  è  dovuto  aspettare  il  2004  per  cominciare  a  leggere  tutte  le  pagine  della  storia  del  nostro  confine  orientale.
E  si  è  dovuto  arrivare  al  1992   perché  un  presidente  della  Repubblica, Cossiga,  andasse  a  rendere  omaggio  ai  resti  dei  triestini  e  degli  istriani  giacenti  per   300  metri  cubi  nella   foiba  di  Basovizza . 

La  narrazione  delle  foibe  e  dell’esodo   resterebbe  monca  se  non  fosse  accompagnata  dalla  messa  in  luce  della  fallimentare    amministrazione  italiana  delle  minoranze   che  vennero  a  trovarsi  nei  territori  acquisiti   con  la   prima  guerra  mondiale.  E  rimarrebbe  una  narrazione  sviante  se  non  si  mettessero  in  discussione   due   miti:  quello  degli   italiani  brava  gente   e quello  della  esemplarità   della  resistenza   jugoslava.
Forse   gran  parte  degli  italiani  ha   sempre  mostrato     bonomia   e   senso  di  umanità   nei  rapporti  con  l’altro, in  pace  e  in  guerra. Ma  non  possiamo  ignorare  che  ci  furono  italiani  che  nel  1938   accettarono   inerti   le  leggi  razziali  e  se  ne  resero  complici ed  altri  che  denunciarono   i   vicini   ebrei  per  riscuotere le  taglie  nazifasciste. Analogamente    va  ricordato  che    nel   primo   dopoguerra   gli  italiani  ebbero  trasversalmente  un  atteggiamento  di   ammirato  rispetto   verso    le  popolazioni  tedesche  del  Sud  Tirolo, mentre   considerarono   con  pregiudiziale  superiorità  le  popolazioni  slave  della  Venezia  Giulia  ritenendole  barbare, incivili  e  irrimediabilmente   ostili. Sicché   dopo  il   biennio  1918-20  di  cauta  politica  di  assimilazione, l’ Italia  nazionalfascista  del  primo  dopoguerra   dimostrò  di  non  sapere  o  non  volere  tutelare  i  diritti   dei  300.000   sloveni  e  dei  100.000   croati   incorporati   nel   territorio  italiano.
Si  proibì  agli  slavi  l’uso  della   loro  lingua  a  scuola , in  chiesa, negli  uffici  e  nei  negozi .
Si  chiusero  le  scuole  slovene  (oltre  500  a  Trieste  tra  il 1920  e  il  1930) e  quelle  croate.
Si  espulsero  centinaia  di  insegnanti  e  di  preti  sloveni  e  croati.
Si  sciolsero  le  associazioni  culturali  e  sportive   degli  slavi  giuliani.
Si  provocò   l’esodo  in  Jugoslavia  di  circa  100.000   slavi   nati  nelle  province  di  Gorizia, Trieste  e  Pola.
Il   Tribunale  Speciale  per la Difesa  dello  Stato Fascista  (costituito da un  giudice  e da  4  alti  ufficiali  della  milizia  fascista) istituì   130  processi  a  carico  di  544   slavi  imputati   di  sovversione  ed   emise   40   condanne  a   morte.
La   brutale  politica  antislava  del  fascismo  fu  fallimentare:  non  italianizzò  le  minoranze, alimentò  tensioni  e  odi, avvalorò   l’equivalenza    Italia  =  fascismo.
In  più   va  ricordato  che  tra  il 1941  e  il  1943  il  governo  fascista   aggredì   e  occupò  la  Slovenia  e  la  Croazia, procedendo  alla  distruzione  dei  villaggi  dove  operavano  i   partigiani  slavi   e   all’internamento  di  massa (in  116   campi).
Uno dei campi di internamento
 
La  semina  dell’odio  effettuata  dal  fascismo  non  fu  certamente  l’unica  causa  dell’orribile  trattamento  che  tra  il   1943   e  il  1945   le  armate  jugoslave   riservarono   alle  popolazioni  italiane  della  Dalmazia, dell’Istria, di  Trieste  e  Gorizia. La  Jugoslavia  del  comunista  Tito,  dietro  le  bandiere  dell’internazionalismo   e  della  fratellanza  tra  proletariato   jugoslavo  e  italiano, perseguì   l’obiettivo    nazionalista  di   portare   il   confine  jugoslavo  all’  Isonzo  e  pertanto    organizzò  la  sistematica   eliminazione  di   quanti  avrebbero  potuto  tentare  di  opporsi   all’instaurazione  del  potere  jugoslavo   (militari  tedeschi  e  italiani, appartenenti  all’ amministrazione  italiana, membri  non  comunisti   del  CLN  e  della  Resistenza  giuliana).
Processi   sommariamente  “popolari”, deportazioni, sparizioni   e  infoibamenti   colpirono  soprattutto   l’antifascismo  italiano  che  avrebbe   potuto   legittimare  le  aspirazioni  italiane  sul  territorio  giuliano  e   smentire  la  propagandistica  identificazione  degli  italiani  come   fascisti.
A   conclusione  di  questo   riassuntivo    inquadramento    non  si  vuol  certamente    indurre  a  pensare   che  gli  italiani   e  gli  jugoslavi   siano   geneticamente   peggiori  o  migliori  di  altri   popoli. La  ferocia  della   contrapposizione    etnico-nazionalistica  si  manifestò   in  molti   altri  paesi.
In  Alsazia – Lorena  (regione  passata  all’impero  tedesco  nel  1871  dopo  la  vittoria  dei  prussiani  sulla  Francia  e  poi   tornata  ad  essere  francese  al termine  della  prima  guerra  mondiale)  la  Francia  procedette  all’espulsione  immediata   dei  tedeschi  immigrati  nei  50  anni  precedenti: 112.00  tedeschi  ricevettero  un  preavviso   di  24  ore  per  fare  i  bagagli  (non più  di  30  kg  a  testa) prima  di  essere  caricati   sui  camion  e  trasportati  in  Germania.
Alla  fine  della  seconda  guerra   mondiale   2  milioni  di  profughi  tedeschi  furono  cacciati   da Polonia , Ungheria  e  Romania   ed   1   milione   di   profughi   polacchi   furono  espulsi  dai  territori   ceduti  alla   Russia,
E’  la  storia   a  dirci  che  chi  vince  la  guerra   raramente  si  predispone  a  gestire  paci   durevoli. L’ Unione  Europea   dopo  secoli  di  odio  e  sangue   ha  regalato  agli  europei   70  anni   di  pace , un  miracolo  di  cui  non  sempre  siamo  consapevoli. 

(2) Microstoria    
Sono  diventato  un  esule la mattina del  6 febbraio 1947 sulla  motonave  Toscana che lasciava il porto di Pola, diretta a Venezia con la mia famiglia e altri 2000 profughi polesi ,ormai consapevoli che entro qualche giorno l’ Italia avrebbe firmato il  trattato  di pace impostole dai vincitori e avrebbe ceduto alla Jugoslavia gran  parte del territorio  giuliano  acquisito nel 1918, al termine della Grande guerra in  cui 680.000 soldati italiani erano  morti ( insieme a centinaia di migliaia di civili) ed  altri 700.000 erano stati resi invalidi (cfr. M. Thompson, La  guerra bianca: vita e morte sul fronte italiano  1915-1919, Saggiatore, MI 2009).
Coltivare la memoria delle vicende legate alle foibe e all’esodo giuliano senza conformismi nazionalistici o ideologici si rende possibile se si ha la consapevolezza che quelle  vicende vanno situate nel quadro  degli orrori perpetrati nel Novecento europeo. Nel  secolo dei soldati soffocati dai  gas  nelle trincee della Grande Guerra a Ypres, a Verdun e sul  monte San Michele, dei milioni di sterminati nei lager  hitleriani  e nei gulag staliniani, dei 230 ragazzi  antifascisti  rastrellati e impiccati con i cavi del telefono sulla spianata di  Bassano, dei 5000 militari italiani che a Cefalonia furono fucilati, bruciati, annegati  per non aver accettato di proseguire la guerra a   fianco  dei nazisti   e  dei 10.000  musulmani bosniaci  massacrati dalle truppe serbe  a Srebrenica nel luglio 1995. L’ Europa e il mondo hanno bisogno di ricordare e far ricordare  questi  orrori, nel tentativo di liberarsi  della  pericolosa  propensione alla catalogazione  gerarchica  degli  umani  (cfr. L.Cavalli Sforza- D. Padoan, Razzismo  e  Noismo , Einaudi, TO 2014) in portatori di sedicenti civiltà  superiori e  votati al  dominio, necessariamente  contrapposti  ai  barbari  privi di cultura e di storia, destinati al  servaggio  o  allo  sterminio. Le  giornate della Memoria e del Ricordo eviteranno il pericolo di scadere nella ritualità se  recupereranno l’insegnamento di Walter Benjamin:  Avremo  veramente  elaborato  il  lutto   solo  quando  saremo  riusciti   a   comprendere i  dolori  e le speranze  di  tutte  le  vittime.

Nella  Venezia  Giulia   asburgica  le  
Confine asburgico
popolazioni  italiane, prevalenti  a  Trieste e  nelle città  costiere  dell’Istria, e  quelle  slovene e croate, maggioritarie  nell’entroterra, avevano   sviluppato  una   convivenza  
Il confine dopo la grande guerra
Il confine attuale


sostanzialmente   pacifica fino agli  anni  Sessanta  dell’ Ottocento. Molti  slavi  cercavano e  trovavano  lavoro  sulla  costa, imparavano  l’ italiano  e  con  i   vicini  italiani  avevano  in  comune  la  religione  e  un  diffuso  rispetto  per  il  carismatico imperatore Francesco  Giuseppe  e  la  sua  buona  amministrazione  dei  territori. Qualcosa  di  questa   abitudine  a  vivere  insieme  deve  essere  sopravvissuto  persino  più  tardi   se potè  accadere, per  esempio, che  due  miei zii , accesamente  irredentisti, si  unissero   a  donne  di  famiglia  croata. Ma  è  indubbio   che   anche  nella  multietnica  Pola (dove  il  censimento del 1890   registrò  la  presenza  di  19.000  italiani, 10.000  croati, 4500 austriaci  e 1500  sloveni) finì  per  prevalere  la  netta  contrapposizione  etnico-nazionalistica  tra  italiani  e  slavi   che  improntò  le  associazioni religiose  e  sportive, le  casse  di  credito, le  bande  musicali, i  circoli  di  lettura. In  un  clima   che  fatalmente  isolò  i  circoli  operai  tendenzialmente   internazionalisti.

Mio padre  era  un  “regnicolo”, proveniente  cioè  dalle  vecchie  province  italiane, terrone
di   Lucania, classe  1899, tolto – a causa  degli  eventi  della  prima  guerra  mondiale- agli  studi  di  ragioneria  e  inviato  prima  sulla  linea  del Piave  e  poi  a  Trieste  e  subito  dopo  a  Pola, dove  conobbe  e  sposò  mia  madre. Se  mio   padre  poteva  essere  definito  come  politicamente  refrattario, con  un  atteggiamento  da  meridionale  perplesso  e  scettico  di  fronte  ai  rivolgimenti  politici, molto  più  caratterizzata  era  la  famiglia  di  mia  madre. Il  nonno materno era  un  operaio  dell’ arsenale  navale  di Pola , che  aveva  messo  insieme  tre  figli  di  un  precedente  matrimonio   con  i  quattro  avuti  da  mia  nonna, nata  a Rovigno   in  una  famiglia  di  piccoli  proprietari  terrieri. Dei  tanti  fratelli  di  mia  madre , i  più  vecchi  vissero  la  loro  giovinezza  da  cittadini   dell’  imperial – regio   governo: Orfeo  girava il  mondo  come  fuochista  su navi  mercantili   battenti  bandiera  austriaca; Umberto  per  parecchi  anni  fece  la  spola  con  Vienna  dove  rappresentava  gli  istriani  nel  sindacato   austro-ungarico   dei  dipendenti  pubblici  e , dopo  il  1918, fu  tra  i  primi  ad  aderire  all’irredentismo  nazionalista  e  al  partito fascista.   Eugenio  aveva  studiato  medicina  a  Graz  e  tra    1914 e  1915  si  iniettò   il  tracoma  per  non  essere  arruolato   dagli  austriaci; esercitò poi  la  sua  professione di medico ad  Albona, da  dove  fuggì  nel  1944  per  riparare  nel  Veneto. Edgardo  e  Bruno, i  più   giovani  fratelli  di  mia  madre, parteciparono  attivamente  alle  manifestazioni  antislave  organizzate  dai  fascisti  negli  anni ’20. Bruno  si  laureò  in  economia  e  commercio  ed  ebbe  ruoli  dirigenziali  nella  burocrazia   ministeriale  fascista  e  post-fascista.
Si  può  utilizzare  la  storia  di  questa  famiglia, forse  non  troppo  diversa  rispetto a quella di  altre  famiglie  istriane, per  affermare  che  gran  parte  degli  italiani  della  Venezia  Giulia  era  tendenzialmente  fascista?  Sarebbe  azzardato  dirlo, anche se spesso ci  si  è  serviti  di  questa  sbrigativa  identificazione  per  spiegare  un  esodo  che  ha  coinvolto centinaia di  migliaia   di  persone. Credo  si  debba  essere  molto  più  prudenti  e  non  si possa  dimenticare  che  a Pola  dal  1944  risulta  attivo  un  Comitato di Liberazione  Nazionale  cui  partecipavano tutti  i  partiti  antifascisti, senza  distinzioni  tra  italiani  e slavi, anche  se  poteva  essere  difficile  per  gli  italiani  aderire  ad  un  movimento  di  fatto  egemonizzato, specie  nelle  campagne, da  formazioni  apertamente  schierate  per   l’annessione  dell’ intera  Venezia  Giulia  alla Jugoslavia.
Dall’autunno  1943 l’Istria , con le province  di Trieste, Gorizia e Lubiana, era  entrata  far parte  della zona di operazioni  militari   denominata  “Litorale Adriatico”, affidata  al  protettorato  del  carinziano  Friederich  Reiner e  alla  polizia   comandata dal  generale Globocknik, responsabile  in Polonia delle operazioni  volte  allo sterminio  degli  ebrei  e  a  Trieste  regista  dell’avviamento  della risiera di San  Sabba  come  centro  di  detenzione  ed  
eliminazione  di  ebrei  e  di  prigionieri  politici. A seguito  di  questo  atto  con  cui  fin  da  allora  il  nazi-fascismo mise  in  discussione  la  piena  appartenenza  del  territorio   giuliano  all’ Italia, il   comando  tedesco nel marzo 1945  decise  di  fare  del  porto e  della  città  di  Pola  una  zona  di  resistenza  ad  oltranza. Pertanto  impose  immediatamente  l’arruolamento  obbligatorio  della  popolazione  adulta  maschile  nel  servizio  territoriale  di  difesa (si  trovarono  costretti  a  farne  parte  anche  mio  padre  e  mio  fratello  Fulvio, diciannovenne) e lo sfollamento  degli  anziani, delle donne e  dei  bambini  nei  centri  minori  dell’  Istria. Caricati  in  fretta e  furia   su  vagoni bestiame, mia  madre  e  noi  5  bambini e ragazzi (tra i 3  e  i  16  anni), fummo  spediti  insieme  a  migliaia  di  altri  polesi  verso  Buje  e  Pirano   sulla linea Pola-Pisino-Capodistria che  correva  all’interno  della  penisola  istriana    dove  era  sempre  più  debole  il  controllo  militare  dei  nazi-fascisti: di  giorno  il  convoglio  era  mitragliato  dagli  aerei  alleati, di notte  la  nostra  esigua  scorta  militare  aveva  delle  scaramucce  con  i  partigiani  slavi; un paio di volte il  vagone carico di pietre  che  precedeva  la locomotiva  saltò  sulle  mine  partigiane  e  ogni  volta  bisognava  lungamente  aspettare  che  la  linea   fosse  ripristinata.
Ho  ancora  nitido il ricordo del primo impatto  con  i  partigiani  jugoslavi che  sfilano  per  le  vie  di  Pirano a mezzogiorno  del  27  o  forse  del  28  aprile 1945 e che io e  mio  fratello  incontriamo  all’uscita  dalla  scuola  elementare. Ed  è  la  spinta  di  antiche   paure  che  ci  fa  correre  verso  casa  piangenti   per  annunciare  a  nostra  madre “se  qua   i  s’ciavi!”. Forse  nello  stesso  pomeriggio gli  altoparlanti  della  UAIS (Unione  antifascista  italo-slovena) impongono  l’esposizione  alle  finestre  del  tricolore  italiano  con  la  stella  rossa, insieme  alla  bandiera   jugoslava  e  alla  bandiera  rossa . Di lì  a  qualche  giorno  ci  viene  ordinato di  lasciare  nelle 24  ore  Pirano  e  di  ritornare a Pola. Ci  imbarcano  su  un piccolo  battello  croato che  naviga  lentissimamente  lungo costa. Con  il  fiato  sospeso  scrutiamo  i  banchi  di  mine  galleggianti, nella  speranza  di  non  incappare in  qualche  ordigno   disancorato  e  vagante. Le  operazioni  di  sbarco  in  un  porticciolo   vicino  a  Pola  avvengono  in  modo  talmente  frettoloso  e  sgangherato  che, con  grande  disperazione  e  furia  di  mia  madre, è  lasciato  cadere  in  acqua  proprio  il  prezioso  cassone  dove  erano  stati  riposti  la  farina  e  gli  altri  viveri  faticosamente  acquistati  dai  contadini  del  piranese.
Tra l’inizio di maggio e il 12 giugno 1945 (quando a seguito dell’accordo Alexander-Tito  le  truppe  jugoslave si ritirano da Trieste  e da Pola) viviamo   sotto  l’occupazione  jugoslava
Il piano di Tito
 e sperimentiamo  la  sistematica  realizzazione  del  progetto   politico  di Tito  e   del  partito comunista  jugoslavo. L’accordo  dell’aprile  1944  tra la  Resistenza  italiana(CLNAI)  e  quella  jugoslava   aveva  rinviato  alla  fine   della  guerra  di  liberazione   la  definizione  dei  confini   nelle   zone  etnicamente   miste. Ma  nel  successivo  autunno  si  era verificato  un  clamoroso  cambio  di  rotta  e  la  Jugoslavia  aveva  presentato    chiaramente    il   suo  proposito  circa la Venezia  Giulia   attraverso le  dichiarazioni  settembrine     di    Kardely (“Diventerà  nostro  territorio tutto ciò  che  si ritroverà alla fine  della guerra  nelle  mani del nostro  esercito”) e  del ministro degli esteri del governo partigiano jugoslavo, Smodlaka, che  prospettò  la revisione del confine  orientale come  condizione  preliminare  per  una  duratura  pace italo –jugoslava: “La  Jugoslavia democratica è disposta a tendere la mano alla nuova Italia e a salutarla con le parole “Ripassate l’Isonzo  e  torneremo fratelli”… Gli  studi  della  storiografia giuliana  e  in  particolare  le ricerche dell’ Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nella Venezia  Giulia (Valdevit, Pupo, Spazzali, Troha,..) permettono di dire oggi che le durezze e le vere e proprie atrocità  dell’occupazione jugoslava  non possono unicamente spiegarsi  come  risposta  ad  antiche e  vituperevoli ingiustizie   di  cui  si  era  resa  responsabile  l’amministrazione   fascista.  La  realizzazione del  progetto  annessionistico  prima  di  ogni  negoziazione  internazionale  comportò  nella  primavera  1945  l’imposizione del  controllo jugoslavo  sull’intera  Resistenza  giuliana, sottratta  alla  direzione  del comitato di liberazione  nazionale  dell’ alta Italia (CLNAI), e nei territori occupati   ispirò   il ricorso alle liste  dell’ OZNA , la polizia segreta jugoslava,  per  “normalizzare” l’occupazione  eliminando  gli appartenenti  all’apparato  amministrativo  italiano (insegnanti , ferrovieri, impiegati delle poste , guardie di finanza, etc) .
In quei 40 giorni   mio padre (fino al 1942 capitano dell’esercito italiano, in quanto  richiamato alle armi) e mio fratello maggiore (costretto  all'arruolamento  obbligatorio  nel servizio territoriale  di  difesa  tedesco) sono nelle liste dei  ricercati  dall’OZNA  che  opera  soprattutto con  rastrellamenti  notturni  e che  di  notte  perquisisce  3  o 4 volte  la  nostra  casa, nel  terrificato  silenzio di mia madre  e  di  noi   bambini.  Si  salvano  nascondendosi  presso  conoscenti. Non si salva il figlio di una  famiglia  amica, antifascista e studente di filosofia;  lo prendono all'ospedale  dove è ricoverato per un’operazione  chirurgica  e diventa  uno  delle  827  persone  fatte  scomparire  a  Pola  nei 40  giorni  di  occupazione  jugoslava (il loro numero è attestato  dall'indagine  del Governo militare alleato  nel 1947).
Sono comprensibili  il tripudio con cui Pola  accolse il 13  giugno 1945 i  reparti  anglo-americani  e, da quel momento, l’ apprensione  con  cui  la  città  seguì  gli  incontri dei  ministri degli  esteri delle  potenze   vincitrici, che  preparavano  il  testo  del  trattato  di  pace  con  l’ Italia.   Mentre  Tito, forte  della sua posizione di  alleato  della  coalizione  anti-nazista, pretendeva  risolutamente  l’intero  territorio  della Venezia  Giulia  fino  all’ Isonzo, anche  come  compensazione  del cattivo  trattamento  delle  minoranze  slave  da  parte  del  regno  d’Italia  e   dell’aggressione condotta  dal  governo   fascista  alla Jugoslavia, in  Italia   l’ Assemblea   Costituente   e  il  governo  confidavano  che il ruolo  svolto  nella Resistenza  e  nella  cobelligeranza  avrebbero  facilitato  un  trattamento  non  punitivo. Il  2.07.1946  l’Assemblea costituente  approvò  all’unanimità  un ordine del giorno riaffermando l’inscindibile unità  della Patria  nella sua gente e nei  suoi  confini (cfr. C. MAGGIO, Il  confine  orientale  italiano  nei  verbali  dell’ Assemblea  costituente, Svevo, TS  2005).  Il  giorno  dopo  il  consiglio dei ministri  degli  esteri  delle potenze  vincitrici  respingeva  sia la  proposta  russo-jugoslava di riportare il confine orientale italiano all’Isonzo, sia quella anglo-americana sostanzialmente  converg
ente nell’ individuare  un  confine
La linea Morgan
 etnico (linea  che  doveva lasciare il meno possibile di minoranze  sotto  sovranità  straniera)   e  nell’assegnare  all’Italia  Gorizia, Trieste, l’Istria  occidentale  e Pola. Il consiglio dei ministri delle 4 potenze faceva  propria  la  proposta francese che  rinnegava  la linea  etnica e il principio della  consultazione  referendaria  delle  popolazioni (solennemente  dichiarato  nella Carta  atlantica), internazionalizzava  il Territorio Libero di Trieste  e  attribuiva  alla Jugoslavia  più  dell’ 80 %  del  territorio  giuliano. 
Avendo vissuto la dura esperienza  dell’occupazione jugoslava e avendo visto l’andamento delle trattative di pace, fin dal luglio  1946  molti polesi  manifestarono l’intenzione di lasciare la città. Il  governo De Gasperi  convocò i rappresentanti  del CLN  di Pola e chiese  agli  italiani  dell’intera  Istria  un  ripensamento  in  nome  degli  interessi  nazionali, anche nel timore che nelle  disperate  condizioni  in  cui  versava  l’Italia  prostrata  dalla  guerra  e  dalla  sconfitta l’arrivo  di  300.000/350.000  profughi  giuliani  sarebbe  potuto  diventare  “un  salto  verso  l’ignoto”. Ma  le  notizie  della radio e delle  stampa   circa un possibile  e imminente  passaggio  di poteri  tra  anglo-americani e jugoslavi   a Pola  in  contemporanea  con la firma del trattato di pace, stabilita  per  il 10 febbraio  1947, crearono allarme. Sicchè  dal  dicembre  1946  il CLN  di Pola, in accordo  con  il  governo  italiano, istituì  gli  uffici  per  l’esodo, organizzò  la  distribuzione dei  certificati  anagrafici  e  scolastici  e  avviò  intese per il  nolo  di  navi. Ai  profughi di Pola si concesse per 3 mesi un sussidio governativo mensile di lire 300  per  famiglia ,  oltre  ad un contributo una tantum di lire 1000 per  ciascun  componente  del nucleo  famigliare. Nel corso del 1947  lasciarono Pola 28.000  abitanti (su 30.000).Era  il  corrispettivo  di 9000  famiglie. Già  alla fine  di  febbraio  se ne erano  andati 5 proprietari di albergo su 5,  6 proprietari di pasticceria  su 6, 27 proprietari di caffè  su 29, 126  osti  su  156  e  persino  i 5 tipografi  del quotidiano  filo-jugoslavo “Il  nostro  giornale”, dove  rimasero  soltanto  due  redattori.
La  motonave “Toscana” iniziò  i  viaggi  dell’esodo  il  1° febbraio  1947, trasportando  ogni  volta  1500-2000  profughi. La  mia  famiglia  partì  con  il  2°   viaggio del “Toscana” e con noi  furono  traghettate  verso l’Italia  un  buon  numero  di  vecchiette  dell’ospizio  di  mendicità. Partita dal porto di Pola  alle  8 di un mattino  insolitamente  nevoso, la nave arrivò  a Venezia  intorno  alle  16. Erano circa un migliaio i profughi  che la mattina  successiva   con  noi  ripartirono da Venezia su  un  lungo  convoglio  ferroviario. Noi  scendemmo  con  molti  altri a Padova e trovammo  una  città  in  festa  per  la  ripresa  delle  celebrazioni  goliardiche  dell’ 8  febbraio.  Non  ci  mettemmo  molto  a scoprire   un ‘ Italia  poverissima e  tormentata da un inverno  straordinariamente  freddo. C’era una grande  penuria  di legna , carbone  e gas : a Padova l’erogazione del gas si limitava a 3 ore al giorno e dalla lettura de “Il Gazzettino” del 26  febbraio si apprendeva  che sulla strada  Stanghella-Solesino la polizia aveva  sorpreso 150 uomini intenti a segare  gli  alberi del  bordo  stradale  e ne aveva arrestato 11. Nell’Italia  che  aveva  una  gran  voglia  di  dimenticare  rapidamente  la  guerra, reduci  e  profughi  furono  accolti  con  inevitabile  freddezza. Ma  non  deve  essere  ignorato che molti Comuni si resero disponibili ad accogliere i profughi. Circa un centinaio di impiegati pubblici di Pola trovarono sistemazione e lavoro a Padova. Trenta anziani della Casa di ricovero di Pola furono accolti in quella di Padova  e 50 orfani provenienti dall’orfanotrofio francescano di Pola furono  inseriti in analogo istituto di Cittadella (alla  fine di quello  stesso febbraio la  questura di Padova trovò 5 di loro alla periferia della città, decisi a ritornare a Pola  a  piedi). Anche  l’ ANPI  e  la  CGIL   organizzarono  una  grande  manifestazione  nazionale  di  denuncia  del  duro  trattato di pace  imposto  all’ Italia e di solidarietà con i profughi. A  Padova  la Camera del lavoro  e  l’ ENAL dettero  vita ad una settimana  di  solidarietà con i giuliani, mentre  nelle  scuole della  città  e  all’ Università  si raccolse  danaro  per  i   giovani  istriani. E  poi  ci  fu  la  generosità  dei singoli. Nessuno  della  mia  famiglia potrà  mai  dimenticare che negli anni di maggiore  difficoltà, quando mia madre al termine della giornata  si diceva  e ci diceva con stupefatta  soddisfazione “Anche  oggi  siamo  riusciti  a  mettere  qualcosa  in  pentola”, abbiamo  incontrato a Padova  un  alimentarista , il signor Ferruccio  Tomat, che  aveva  bottega  di casolino in  via  Barbarigo e che di fronte  all’imbarazzata  dichiarazione  di  mio padre  che  non  sarebbe  riuscito a pagare puntualmente alla fine di ogni  mese  tutte  le  ingenti  forniture di pane ,zucchero, marmellata, salsa  e pasta   registrate  sul libretto  e  delle  quali  campava  una  famiglia  di  otto  persone, disse   semplicemente  “Lei  non si  preoccupi. Mi pagherà   quando  ne  avrà”. E  pazientò  per  anni  interi   senza  chiedere  garanzie   a noi  sconosciuti, senza  esprimere  la  benchè  minima  sollecitazione, senza  mai  rifiutare  nulla  del  molto  che  ogni  giorno  andavamo  a  prendere  nel  suo  negozio.
Usciti dalla stazione ferroviaria di Padova  vagabondammo   due  settimane per le vie della città, apprezzando  la  funzione  protettiva dei  portici :gli alberghi erano pochi e quasi tutti  riservati  agli ufficiali  alleati, gli affittacamere erano saturati dagli studenti  universitari e ovviamente nessuno amava  ricevere una famiglia  composta da due genitori , due figli grandi  e  4  figli ancora bambini. Sicchè  alla  sera  dovevamo dividerci per  trovare  posto; alla mattina  ci si ritrovava , ciascuno con una borsa  proporzionata alla statura e al peso  e  si  riprendevano i giri alla ricerca di un  alloggio  qualsiasi. Infine lo trovammo a poca distanza dal Duomo. Si trattava  di  due  stanze da letto poste in un  vecchio  edificio  malamente  rabberciato dopo i guasti  dei  bombardamenti, sotto un  tetto cola-pioggia, con un  cucinino , un bagno e un ingresso  reso polivalente in quanto  destinato a funzionare  nelle varie ore del giorno come camera da pranzo , studio, intrattenimento , gioco e letto. Il  proprietario  pretese  e  ottenne sopra  l’affitto  una  indennità  una  tantum  di buona  entrata, decisamente  esosa: 250.000  lire  di  allora; nel  contempo  rifiutò  qualsiasi  intervento  di  manutenzione. Sicchè  nei  mesi  piovosi  allineavamo  capaci  pentole  per  accogliere  l’acqua  che   scendeva dal  soffitto e  in  quelli  più  caldi  noi  bambini  ci  dedicavamo  alla  caccia dei  topi  che  si  affacciavano  dalle  assi  sconnesse del  pavimento. Ma  era pur  sempre  una  casa. Mio  padre  potè maggiormente   impegnarsi nella  difficilissima  ricerca  di  un’occupazione, ricerca particolarmente  ardua  per  uno  che  aveva  quasi 50  anni  e  non  aveva  certamente  potuto  portare  con  sé  i  clienti  del  suo  negozio  di  abbigliamento  di Pola. Avendo  vista  respinta  la  richiesta  di  emigrazione  in  Australia, dovette  continuare  la  sua  ricerca  per  molti  anni e  come  tanti altri  italiani passò  molto  lentamente   dalla  condizione  di  disoccupato , negoziante , ex-negoziante  a  seguito  di  fallimento  concordato, sub-rappresentante  di  commercio   a  quella  di  lavoratore  dipendente, regolarizzato  alla  fine  degli  anni Cinquanta ovvero all’inizio del “miracolo  economico”. Noi  bambini riprendemmo  la  scuola, incontrando  nuovi  compagni e nuovi  insegnanti, tutti  troppo  impegnati  nell’affrontare  un  duro  presente  e  nel  decifrare un  futuro  incerto. Quasi  nessuno  ci  chiese   da  dove  venivamo   e  come  era  il  luogo  che  avevamo  lasciato. Noi  probabilmente  non  avevamo  voglia  di  parlarne: eravamo  molto  presi  da  tutto  il  nuovo  che  così  rapidamente   ci  era  venuto  incontro  e  non  faticammo  a  far  amicizie  tra i nuovi  compagni  di  scuola. Al  pomeriggio  mentre  si  sbrigavano  i  compiti  per  casa  ci  capitava  spesso  di  sentire  una  trasmissione  radiofonica  dedicata  alle  popolazioni  dell’esodo, che  esordiva  immancabilmente   con  un  tonante  “Fratelli   giuliani  e  dalmati, è  la Patria  che  vi  parla!” Mio  padre , se  c’era, sghignazzava  e  aggiungeva  “Attenti  al  portafoglio !”. C’era  poco  posto  per  la  retorica nazional- profughista  a  casa  nostra  e  probabilmente  percepivamo ( forse  troppo  sbrigativamente )  come   inconcludente  e lamentosa   l’attività  delle  associazioni  dei  profughi, al  punto  che  non  frequentavamo né  le  associazioni, né  i  loro  raduni. Indubbiamente  vissero  vicende  ben  più  dolorose  delle  nostre  i  profughi giuliani  che , nei  130  campi  di  raccolta  precaria  disseminati  nella  penisola  e  attivi  tra  il  1945  e  il  1970(!), (7) patirono  i  disagi  della  promiscuità  e  della  forzata  inattività., mescolati  ai  profughi italiani   provenienti  da  Grecia, Libia, Algeria  e Tunisia.
L’esodo  ebbe  diversificate  cronologie  a  Zara, a Fiume, a Pola  e  tra  i  150.000    che  esercitarono l’opzione nell’Istria ormai  sotto  amministrazione  jugoslava, abbandonando  case, campi, lavoro, risparmi in banca,... Tuttavia  ovunque  derivò da  una  decisione  collettiva ( a Pola  l’esodo  fu  coordinato  dal  CLN, altrove  dalle  comunità  locali), coinvolse  la  quasi  totalità  della  popolazione  italiana (i  250.000  italiani  censiti in Venezia  Giulia  prima della  guerra si  riducono  ai  15.000  di  oggi) e  riguardò  tutte  le  classi  sociali: anche  la  classe  operaia,  che  inizialmente  aveva  visto  positivamente  il  costituirsi  dello  stato partigiano  jugoslavo, di  fronte  alla realtà  del  regime  scelse  l’esodo. La  Commissione  storico-culturale  concordata  tra  Italia  e Slovenia  per  studiare  le  vicende  svoltesi nella Venezia  Giulia  tra  il  1880  e  il 1956, nella  relazione  conclusiva  pubblicata  nel  2001  ha  affermato: L’esodo  degli  italiani  dall’Istria  si  configura  come  aspetto particolare   del  processo  di  formazione  degli  stati nazionali  in  territori  etnicamente   compositi. Quel processo  condusse  alla dissoluzione  della  realtà  plurilinguistica  e  multiculturale esistente  nell’ Europa  centro-orientale  e  sud-orientale. Il  fatto  che  gli  italiani  abbiano  dovuto  abbandonare  uno  Stato  federale  e  fondato  su di un’ideologia  internazionalista, mostra  come  nell’ambito  stesso  di  sistemi  comunisti  le  spinte  e  le  distanze  nazionali   continuassero  a  condizionare  massicciamente   le  dinamiche  politiche”     
La  comunità  istriana  e  giuliana  degli  esuli  ha  avuto  indubbie  difficoltà  a  farsi  ascoltare  e  capire. Le  contrapposizioni  ideologiche  della  Guerra  Fredda   hanno contribuito  a  determinare più  di  una  strumentalizzazione:  i  governi  centristi   hanno  corteggiato  i  profughi  giuliani  e  il  loro  voto   con  politiche  clientelari (facilitazioni  pensionistiche, posizioni di privilegio  nell’accesso  ai  concorsi per  il lavoro nelle  amministrazioni  pubbliche,..)  ed  hanno  ignorato  le comunità  italiane   rimaste  volenti  o  nolenti   al  di là  della  frontiera; la  destra  ha  capitalizzato   le  vicende  degli  infoibamenti e  dell’ esodo  a  riprova  delle conclamate malefatte  del  comunismo; la  sinistra  a  lungo  ha  teso  a  spiegarle   esclusivamente   come   conseguenza  dell’oppressione  esercitata  dalla  dittatura  fascista   sulle  popolazioni  slave, mentre il PCI  di Togliatti  da  una  parte  si  schierava  per  l’italianità  di Trieste  e  dall’altra  si  opponeva  con  contorte  motivazioni  all’ipotesi  - sostenuta  da  Nenni , da  Lussu  e  da  Valiani- del  plebiscito   per  l’autodeterminazione  delle  popolazioni  giuliane. Bisogna  arrivare  ai  giorni  nostri  perché  tra  i  post-comunisti  si  manifesti  una  posizione  ispirata  non  ad  un  revisionismo   strumentale  che  tutto  occulta    nel  nome  della  riconciliazione  nazionale, ma  più  promettentemente  alla  volontà  di  ricercare  e  capire   leggendo  tutte    le  pagine  della  storia. Come  fa  da  ormai  molti  anni  l’ Istituto  storico  del  movimento  di  liberazione  nella Venezia Giulia  e come  sta  facendo  l’ ANPI  veneto  con  la  promozione  di  studi   e con  la  ricerca di   occasioni  di  confronto  con  le  associazioni  dei  profughi .  
Oggi, nonostante il  ricorrente  manifestarsi  di  etnocentrismi  tribali  che  vivono  la  differenza   come  ragione  di  scontro, non si può  non  sperare  che  la  caduta  delle  contrapposizioni  ideologiche  consenta  una  vera  ricomposizione  della  storia  che  metta  fine  alle  omissioni  faziose  e  finisca  per  rendere  nuovamente  possibile   quel  pluralismo  etnico-culturale    e  quella  convivenza  pacifica  tra  italiani, slavi , tedeschi, ebrei, ungheresi, che  sono  durati  nella  mia  Istria   fino  alla  metà  dell’Ottocento  e  hanno  regalato  alla  regione giuliana  la  straordinaria  ricchezza culturale  propiziata ieri  dal  meticciato  di  Tommaseo, Stuparich, Slataper , Svevo-Schmitz  e  ,in tempi  più  vicini, di Tomizza, Magris, Pahor , Bettiza, Matvejevich ,  Kovacich e molti  altri .   

Letture   suggerite
VALDEVIT,”Foibe.Il peso del passato”,Marsilio  VE  1997 ; MORI-MILANI, “Bora”, Frassinelli, CO 1998; CRAINZ, “Il dolore e l’esilio”, Donzelli, Roma 2005 ; BURGWYN, “L’impero  sull’ Adriatico. Mussolini e la conquista  della Jugoslavia”, Libreria editrice goriziana, GO 2006; CATTARUZZA, “L’Italia  e  il  confine  orientale”, Il Mulino,BO  2007;  SANSONE-TOTA, “Palacinche.Storia di un’esule fiumana”, Fandangolibri, Roma 2012

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