martedì 27 gennaio 2015

Enrico Vanzini e Roberto Brumat a "La vita in diretta"



Oggi, dalle 16 alle 18, Enrico Vanzini e Roberto Brumat saranno ospiti del programma televisivo: "La vita in diretta" trasmesso da RAI 1.

Mercoledì 11 febbraio Vanzini e Brumat saranno presenti a Mestrino, opsiti dell'Associazione Storia e Vita:

Giornata della memoria


Hanna Arendt



    

        La banalità del male












""Quel che ora penso veramente è che il male non è mai 'radicale', ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso 'sfida' come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua 'banalità'. Solo il bene è profondo e può essere radicale.""



Nel 1961 Hannah Arendt seguì le 120 sedute del processo Eichmann Eichmann, il criminale nazista che , aveva coordinato l'organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di concentramento e di sterminio. Nel maggio 1960 era stato catturato in Argentina, dove si era rifugiato, da agenti israeliani e portato a Gerusalemme. Processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato "soltanto di trasporti". Fu condannato a morte mediante impiccagione e la sentenza fu eseguita il 31 maggio del 1962. 
Il resoconto di quel processo e le considerazioni che lo concludevano furono pubblicate su una e poi riunite nel 1963 nel libro "La banalità del male" 
Nel libro la Arendt analizza i modi in cui la facoltà di pensare può evitare le azioni malvagie. 
Sostiene che "le azioni commesse dai nazisti erano mostruose, ma chi le faceva era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso". 
L'immagine di Eichmann sembra essere quella di un uomo comune, caratterizzato dalla sua superficialità e mediocrità che lasciano stupiti se si pensa all'enormità del male commesso.
Ciò che la Arendt scorge in Eichmann non é neppure stupidità ma qualcosa di completamente negativo: l'incapacità di pensare. 

In un altro testo (L'origine del totalitarismo) la Arendt si domanda come sia stato possibile che solo poche persone non abbiano aderito al regime nazista e in più si chiede come abbiano fatto queste poche a resistere, malgrado le coercizioni e i terribili rischi.
A tale domanda risponde in maniera semplice: i non partecipanti, chiamati irresponsabili dalla maggioranza, sono gli unici che osano essere "giudicati da loro stessi"; e sono capaci di farlo non perché posseggano un miglior sistema di valori o perché i vecchi standard di "giusto e sbagliato" siano fermamente radicati nella loro mente e nella loro coscienza, ma perché essi si domandano fino a che punto essi sarebbero capaci di vivere in pace con loro stessi dopo aver commesso certe azioni.

 Questa capacità non necessita di una elevata intelligenza ma semplicemente dell'abitudine a vivere insieme, e in particolare con se stessi,  occupati in un dialogo silenzioso tra io e io, che da Socrate in poi è stato chiamato "pensare". 
L'incapacità di pensare non è stupidità: può essere presente nelle persone più intelligenti e la malvagità non è la sua causa, ma è necessaria per causare grande male. 
Dunque l'uso del pensiero previene il male. La capacità di pensare ha  la potenzialità di mettere l'uomo di fronte ad un quadro bianco senza bene o male, senza giusto o sbagliato, ma semplicemente attivando in lui la condizione per stabilire un dialogo con se stesso e permettendogli dunque di elaborare un giudizio circa tali eventi.

sabato 24 gennaio 2015

Chi è Roberto Brumat




Il giornalista Roberto Brumat condurrà la serata dedicata a Mestrino alla Giornata della Memoria, presentando e intervistando Sergio Vanzini, l'ultimo Sonderkommando italiano. 






Pubblicista, con esperienza vastissima di redazioni e uffici stampa, appassionato di storia e di biografie, nel 2012 ha firmato la regia del documentario Dachau, baracca 8 - n 123343. Nel 2013 ha pubblicato il libro "L'ultimo Sonderkommando italiano, dedicato alla vicenda di Enrico Vanzini. 
Abile narratore e coltissimo intrattenitore, assomma in sè le qualità del giornalista e dello storico, ma lasciamo a lui una breve descrizione di se stesso:

"Ho radici ancorate in due confini lontani. Due famiglie, due lingue, una comune anima artistica. Quella italiana nata in un negozio, ha prodotto insegnanti, attori e registi; l’austriaca cresciuta con la terra, ha germogliato albergatori, scrittori, musicisti e pittori. Mio padre Giorgio e mia madre Nora hanno interamente dedicato agli altri l’ultima stagione della loro vita: papà fondando l’AIDO (Associazione Italiana Donatori Organi) e mamma praticando, come sensitiva, la pranoterapia. Ma nonostante tutto quel ben di Dio, mi sento un discendente degenere: ciò che da loro ho saputo recepire è solo il gusto per le cose belle e vere; il piacere di raccontare con semplicità quello che mi appassiona."

mercoledì 21 gennaio 2015

I testimoni: Enrico Vanzini


Enrico Vanzini sarà ospite dell'Associazione l'undici febbraio a Mestrino. Di seguito alcune brevi note che ne inquadrano la vicenda personale e umana.





Enrico Vanzini (Fagnano Olona, 18 novembre 1922) è un militare italiano. Prigioniero dei tedeschi dopo l'8 settembre, fu inviato a Ingolstadt in Germania a lavorare. Tentò la fuga ma ripreso venne condannato a morte a Buchenwald, pena in seguito commutata con l'internamento a Dachau. Sopravvissuto ai lavori forzati e a condizioni indescrivibili nel campo di concentramento nazista, fu costretto a lavorare alla camera a gas e ai forni crematori di Dachau, diventando testimone dell'orrore nazista. È l'ultimo italiano appartenente al Sonderkommando ancora vivente.


Nel 1939, a soli diciassette anni Enrico Vanzini fu arruolato in artiglieria nella Caserma di Alba e destinato al fronte
russo. A causa di un intervento chirurgico cui venne sottoposto saltò la chiamata e venne inviato in Grecia. Dopo il proclama dell'8 settembre 1943 fu arrestato dalla Wehrmacht essendosi rifiutato di collaborare con i nazisti .

Lavori forzati a Ingolstadt.
Il 19 settembre 1943 fu caricato ad Atene su un treno stipato all'inverosimile di prigionieri italiani ed inviato in Germania. Il viaggio durò due settimane in condizioni igieniche precarie, con scarsissime razioni di cibo e di acqua. Molti dei suoi compagni perirono durante il viaggio. Condannato ai lavori forzati fu inviato ad Ingolstadt per lavorare nell'industria bellica del Reich presso una fabbrica di chassis di carri armati.

I bombardamenti anglo-americani colpirono più volte la cittadina di Ingolstadt considerata obiettivo militare strategico. Nel settembre del 1944 dopo un intenso bombardamento alleato la fabbrica venne duramente colpita ed Enrico Vanzini con altri due compagni,  approfittando della situazione di generale smarrimento,  riuscì a fuggire.

Venne arrestato dieci giorni più tardi nelle campagne a sud di Monaco e condotto al campo di concentramento di Buchenwald. In quanto fuggiaschi lui e i suoi due compagni il giorno stesso vennero condannati a morte per fucilazione.

Internamento a Dachau
Con l'aiuto di un ufficiale della Wehrmacht i condannati riescono a dimostrare di non essere fuggiti da Ingolstadt ma di essere stati abbandonati a causa dei bombardamenti intensi. La pena venne commutata in internamento. Enrico Vanzini entrò nel campo di concentramento di Dachau nell'ottobre del 1944. Gli fu tatuato sul polso il numero di matricola 123343, già appartenuto ad un detenuto deceduto, e fu assegnato alla baracca 8 nella sezione dei detenuti lavoratori.

Nei sette mesi di detenzione Enrico Vanzini, oltre agli stenti dovuti alla fame, al trattamento disumano, al lavoro, alle epidemie, alla sete e al gelido inverno, fu testimone dell'orrore dei forni crematori: fu costretto infatti a lavorare per i nazisti nello smaltimento dei cadaveri nei crematori.

I forni crematori di Dachau erano due, uno molto piccolo dotato di un forno a doppia muffola installato dalla tristemente famosa ditta Topf nel 1940 in un capannone di legno dipinto in stile bavarese e accanto un altro molto grande in muratura dotato di una ampia sala d'incenerimento con quattro forni Kori e capace camera a gas, inaugurato nel 1943.

Secondo la sua testimonianza e quella di altri reduci, la camera a gas di Dachau, quella accanto alla sala dei forni nel crematorio grande, era assai operativa negli ultimi mesi prima della liberazione del campo. Il Vanzini fu testimone anche degli esperimenti su cavie umane eseguiti nel laboratorio medico del lager, in quanto costretto a prelevare i cadaveri delle vittime dal laboratorio per condurli sempre ai forni crematori.

Liberazione e testimonianza.
Il 29 aprile 1945 il campo di Dachau viene liberato. Enrico Vanzini è allo stremo ma riesce a sopravvivere. Quando torna a casa, da cui mancava da più di cinque anni, pesa 29 chilogrammi e i suoi genitori non lo riconoscono. 

Poco dopo si trasferisce in Veneto, si sposa, ha due figli e lavora come autista di camion e pullman. Per sessanta lunghi anni non racconta la sua storia neppure alla famiglia. Solo nel 2005 decide di condividere quel dramma ed è così che la sua esperienza diventa prima un documentario, poi un libro, entrambi curati dal giornalista padovano Roberto Brumat. 

Il 29 gennaio 2013, al Quirinale, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, gli conferisce la medaglia d’onore.



fonte: wikipedia e il BO, giornale on line dell'Università di Padova

martedì 20 gennaio 2015

La giornata della Memoria a Mestrino


Storia e Vita torna a Mestrino per la giornata della Memoria 2015.
Ospite d'onore: Enrico Vanzini, l'ultimo sonderkommando italiano, intervistato da Roberto Brumat.
La manifestazione sarà introdotta da un breve concerto di musica Klezmer-



venerdì 9 gennaio 2015

Il lungo esodo, il racconto




(Sergio   Basalisco, Mestrino –PD, 6.02.2014)


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P      Premessa
Sono  diventato  un  esule la mattina del  6 febbraio 1947 sulla  motonave  Toscana che lasciava il porto di Pola, diretta a Venezia con la mia famiglia e altri 2000 profughi polesi, ormai consapevoli che entro qualche giorno l’ Italia avrebbe firmato il  trattato  di pace impostole dai vincitori e avrebbe ceduto alla Jugoslavia gran  parte del territorio  giuliano  acquisito nel 1918 ,al termine della Grande guerra in  cui 680.000 soldati italiani erano  morti (insieme a centinaia di migliaia di civili) ed  altri 700.000 erano stati resi invalidi (cfr. M. Thompson, La  guerra bianca: vita e morte sul fronte italiano  1915-1919, Saggiatore, MI 2009).
Credo si dovrebbero  ricordare tutti gli esodi, a partire da quello dei 50.000  sloveni e croati che tra le due guerre  mondiali lasciarono la Venezia Giulia divenuta parte del  regno d’Italia   che  non  seppe  e  non  volle gestire con lungimirante  giustizia territori  storicamente  multietnici, fino ai  12 milioni di  europei(polacchi, tedeschi, ungheresi,..) che  prima e dopo il 1945 dovettero abbandonare case , campi , officine , botteghe  e  uffici  a seguito di trasferimenti  forzati  in  territori  diversi  da  quelli in  cui erano  nati (cfr. E.Collotti, Gli spostamenti di popolazione nell’Europa Centrale e nei Balcani, Bollati-Boringhieri,TO 2009). Tra loro  si  collocano i 300.000/350.000   istro-veneti, italiani delle vecchie province  ed  anche slavi (non meno di 40.000) che  tra  il 1945  e il  1956  esodarono dalla Venezia Giulia divenuta  territorio jugoslavo.
Coltivare la memoria delle vicende legate alle foibe e all’esodo giuliano senza conformismi nazionalistici o ideologici si rende possibile se si ha la consapevolezza che quelle  vicende vanno situate nel quadro  degli orrori perpetrati nel Novecento europeo. Nel  secolo dei soldati soffocati dai  gas  nelle trincee della Grande Guerra a Ypres, a Verdun e sul  monte San Michele , dei milioni di sterminati nei lager  hitleriani  e nei gulag staliniani, dei 230 ragazzi  antifascisti  rastrellati e impiccati con i cavi del telefono sulla spianata di  Bassano , dei 5000 militari italiani che a Cefalonia furono fucilati, bruciati, annegati  per non aver accettato di proseguire la guerra a   fianco  dei nazisti ,  dei  2000/15.000  infoibati in Istria tra il 1943 e il 1945   e  dei 10.000  musulmani bosniaci  massacrati dalle truppe serbe  a Srebrenica nel luglio 1995. L’ Europa e il mondo hanno bisogno di ricordare e far ricordare  questi  orrori ,nel tentativo di liberarsi  della  pericolosa  propensione alla catalogazione  gerarchica  degli  umani  ( cfr. L.Cavalli Sforza- D. Padoan, Razzismo  e  Noismo , Einaudi, TO 2014) in portatori di sedicenti civiltà  superiori e  votati al  dominio , necessariamente  contrapposti  ai  barbari  privi di cultura e di storia, destinati al  servaggio  o  allo  sterminio. Le  giornate della Memoria e del Ricordo eviteranno il pericolo di scadere nella ritualità se  recupereranno l’insegnamento di Walter Benjamin :  Avremo  veramente  elaborato  il  lutto   solo  quando  saremo  riusciti   a   comprendere i  dolori  e le speranze  di  tutte  le  vittime.

Storia  e  microstoria
La casa natale a Pola

Nella  Venezia  Giulia   asburgica  le  popolazioni  italiane , prevalenti  a  Trieste e  nelle città  costiere  dell’Istria, e  quelle  slovene e croate , maggioritarie  nell’entroterra, svilupparono  una   convivenza   sostanzialmente   pacifica fino agli  anni  Sessanta  dell’ Ottocento. Molti  slavi  cercavano e  trovavano  lavoro  sulla  costa, imparavano  l’ italiano  e  con  i   vicini  italiani  avevano  in  comune  la  religione  e  un  diffuso  rispetto  per  il  carismatico imperatore Francesco  Giuseppe  e  la  sua  buona  amministrazione  dei  territori. 

La tomba del pediatra, ungherese
Qualcosa  di  questa   abitudine  a  vivere  insieme  deve  essere  sopravvissuto  persino  più  tardi   se potè  accadere , per  esempio, che  due  miei zii , accesamente  irredentisti, si  unissero   a  donne  di  famiglia  croata.
 Ma  è  indubbio   che   anche  nella  multietnica  Pola (dove  il  censimento del 1890   registrò  la  presenza  di  19.000  italiani, 10.000  croati, 4500 austriaci  e 1500  sloveni) finì  per  prevalere  la  netta  contrapposizione  etnico-nazionalistica  tra  italiani  e  slavi   che  improntò  le  associazioni religiose  e  sportive, le  casse  di  credito, le  bande  musicali , i  circoli  di  lettura,…  . In  un  clima   che  fatalmente  isolò  i  circoli  operai  tendenzialmente   internazionalisti.

Mio padre  era  un  “regnicolo”, proveniente  cioè  dalle  vecchie  province  italiane, terrone di   Lucania, classe  1899, tolto – a causa  degli  eventi  della  prima  guerra  mondiale- agli  studi  di  ragioneria  e  inviato  prima  sulla  linea  del Piave  e  poi  a  Trieste  e  subito  dopo  a  Pola, dove  conobbe  e  sposò  mia  madre. Se  mio   padre  poteva  essere  definito  come  politicamente  refrattario, con  un  atteggiamento  da  meridionale  perplesso  e  scettico  di  fronte  ai  rivolgimenti  politici, molto  più  caratterizzata  era  la  famiglia  di  mia  madre. Il  nonno materno era  un  operaio  dell’ arsenale  navale  di Pola, che  aveva  messo  insieme  tre  figli  di  un  precedente  matrimonio   con  i  quattro  avuti  da  mia  nonna , nata  a Rovigno   in  una  famiglia  di  piccoli  proprietari  terrieri. 

lunedì 5 gennaio 2015

Corso di scrittura, secondo livello


Riparte l'8 gennaio, con il secondo livello,  il corso di scrittura promosso dall'Associazione Storia e Vita, maestro Angelo Ferrarini
Per nuove iscrizioni telefonare al 340-2651480 o venire direttamente in biblioteca giovedì 8 gennaio alle 21. 

Superfluo fare un bilancio dalla parte degli organizzatori, meglio dare voce alle opinioni dei corsisti: 

"Per quanto riguarda il corso, l'ho trovato stimolante, posso dire come sempre? come sempre! Mi ha fatto anche molto piacere che ci siano stati nuovi iscritti, anche loro fonte di ispirazione e preziosi per allargare la nostra esperienza e per confrontarsi. Peccato che due ci abbiano lasciato anzitempo. La biblioteca anche mi è sembrata ottima come spazi e come struttura, accogliente e funzionale. Tutto bene quindi! Esperienza positiva promossa a pieni voti."  Alessandra




"Interessante la strutturazione, che promuove:
-la conoscenza di nuovi scrittori e l’approfondimento degli stili dei più conosciuti e affermati (Hemingway, Carver), stimolando la riflessione e la critica.
-lo scambio di testi tra corsisti, letti e commentati dai componenti il gruppo; utili i consigli, sia da parte del conduttore che dei frequentanti, per il miglioramento dello stile.
-un clima di rispetto, interesse, amicizia tra i partecipanti che si sentono accettati ed apprezzati.
A conclusione del primo livello,  ritengo di aver acquisito qualche strumento in più per il miglioramento della mia capacità di espressione attraverso la scrittura." Donatella