Associazione di promozione sociale - I testimoni raccontano, musica, autori e altro ancora
martedì 27 gennaio 2015
Giornata della memoria
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Hanna Arendt |
La banalità del male
""Quel che ora penso veramente è che il male non è mai 'radicale', ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso 'sfida' come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua 'banalità'. Solo il bene è profondo e può essere radicale.""
Nel 1961 Hannah Arendt seguì le 120 sedute del processo Eichmann Eichmann, il criminale nazista che , aveva coordinato l'organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di concentramento e di sterminio. Nel maggio 1960 era stato catturato in Argentina, dove si era rifugiato, da agenti israeliani e portato a Gerusalemme. Processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato "soltanto di trasporti". Fu condannato a morte mediante impiccagione e la sentenza fu eseguita il 31 maggio del 1962.
Il resoconto di quel processo e le considerazioni che lo concludevano furono pubblicate su una e poi riunite nel 1963 nel libro "La banalità del male"
Nel libro la Arendt analizza i modi in cui la facoltà di pensare può evitare le azioni malvagie.
Sostiene che "le azioni commesse dai nazisti erano mostruose, ma chi le faceva era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso".
L'immagine di Eichmann sembra essere quella di un uomo comune, caratterizzato dalla sua superficialità e mediocrità che lasciano stupiti se si pensa all'enormità del male commesso.
Ciò che la Arendt scorge in Eichmann non é neppure stupidità ma qualcosa di completamente negativo: l'incapacità di pensare.
In un altro testo (L'origine del totalitarismo) la Arendt si domanda come sia stato possibile che solo poche persone non abbiano aderito al regime nazista e in più si chiede come abbiano fatto queste poche a resistere, malgrado le coercizioni e i terribili rischi.
A tale domanda risponde in maniera semplice: i non partecipanti, chiamati irresponsabili dalla maggioranza, sono gli unici che osano essere "giudicati da loro stessi"; e sono capaci di farlo non perché posseggano un miglior sistema di valori o perché i vecchi standard di "giusto e sbagliato" siano fermamente radicati nella loro mente e nella loro coscienza, ma perché essi si domandano fino a che punto essi sarebbero capaci di vivere in pace con loro stessi dopo aver commesso certe azioni.
Questa capacità non necessita di una elevata intelligenza ma semplicemente dell'abitudine a vivere insieme, e in particolare con se stessi, occupati in un dialogo silenzioso tra io e io, che da Socrate in poi è stato chiamato "pensare".
L'incapacità di pensare non è stupidità: può essere presente nelle persone più intelligenti e la malvagità non è la sua causa, ma è necessaria per causare grande male.
Dunque l'uso del pensiero previene il male. La capacità di pensare ha la potenzialità di mettere l'uomo di fronte ad un quadro bianco senza bene o male, senza giusto o sbagliato, ma semplicemente attivando in lui la condizione per stabilire un dialogo con se stesso e permettendogli dunque di elaborare un giudizio circa tali eventi.
sabato 24 gennaio 2015
Chi è Roberto Brumat
Il giornalista Roberto Brumat condurrà la serata dedicata a Mestrino alla Giornata della Memoria, presentando e intervistando Sergio Vanzini, l'ultimo Sonderkommando italiano.
Pubblicista, con esperienza vastissima di redazioni e uffici stampa, appassionato di storia e di biografie, nel 2012 ha firmato la regia del documentario Dachau, baracca 8 - n 123343. Nel 2013 ha pubblicato il libro "L'ultimo Sonderkommando italiano, dedicato alla vicenda di Enrico Vanzini.
Abile narratore e coltissimo intrattenitore, assomma in sè le qualità del giornalista e dello storico, ma lasciamo a lui una breve descrizione di se stesso:
"Ho radici ancorate in due confini lontani. Due famiglie, due lingue, una comune anima artistica. Quella italiana nata in un negozio, ha prodotto insegnanti, attori e registi; l’austriaca cresciuta con la terra, ha germogliato albergatori, scrittori, musicisti e pittori. Mio padre Giorgio e mia madre Nora hanno interamente dedicato agli altri l’ultima stagione della loro vita: papà fondando l’AIDO (Associazione Italiana Donatori Organi) e mamma praticando, come sensitiva, la pranoterapia. Ma nonostante tutto quel ben di Dio, mi sento un discendente degenere: ciò che da loro ho saputo recepire è solo il gusto per le cose belle e vere; il piacere di raccontare con semplicità quello che mi appassiona."
mercoledì 21 gennaio 2015
I testimoni: Enrico Vanzini
Enrico Vanzini sarà ospite dell'Associazione l'undici febbraio a Mestrino. Di seguito alcune brevi note che ne inquadrano la vicenda personale e umana.
Enrico Vanzini (Fagnano Olona, 18 novembre 1922) è un militare italiano. Prigioniero dei tedeschi dopo l'8 settembre, fu inviato a Ingolstadt in Germania a lavorare. Tentò la fuga ma ripreso venne condannato a morte a Buchenwald, pena in seguito commutata con l'internamento a Dachau. Sopravvissuto ai lavori forzati e a condizioni indescrivibili nel campo di concentramento nazista, fu costretto a lavorare alla camera a gas e ai forni crematori di Dachau, diventando testimone dell'orrore nazista. È l'ultimo italiano appartenente al Sonderkommando ancora vivente.
Nel 1939, a soli diciassette anni Enrico Vanzini fu arruolato in artiglieria nella Caserma di Alba e destinato al fronte
russo. A causa di un intervento chirurgico cui venne sottoposto saltò la chiamata e venne inviato in Grecia. Dopo il proclama dell'8 settembre 1943 fu arrestato dalla Wehrmacht essendosi rifiutato di collaborare con i nazisti .
Lavori forzati a Ingolstadt.
Il 19 settembre 1943 fu caricato ad Atene su un treno stipato all'inverosimile di prigionieri italiani ed inviato in Germania. Il viaggio durò due settimane in condizioni igieniche precarie, con scarsissime razioni di cibo e di acqua. Molti dei suoi compagni perirono durante il viaggio. Condannato ai lavori forzati fu inviato ad Ingolstadt per lavorare nell'industria bellica del Reich presso una fabbrica di chassis di carri armati.
I bombardamenti anglo-americani colpirono più volte la cittadina di Ingolstadt considerata obiettivo militare strategico. Nel settembre del 1944 dopo un intenso bombardamento alleato la fabbrica venne duramente colpita ed Enrico Vanzini con altri due compagni, approfittando della situazione di generale smarrimento, riuscì a fuggire.
Venne arrestato dieci giorni più tardi nelle campagne a sud di Monaco e condotto al campo di concentramento di Buchenwald. In quanto fuggiaschi lui e i suoi due compagni il giorno stesso vennero condannati a morte per fucilazione.
Internamento a Dachau
Con l'aiuto di un ufficiale della Wehrmacht i condannati riescono a dimostrare di non essere fuggiti da Ingolstadt ma di essere stati abbandonati a causa dei bombardamenti intensi. La pena venne commutata in internamento. Enrico Vanzini entrò nel campo di concentramento di Dachau nell'ottobre del 1944. Gli fu tatuato sul polso il numero di matricola 123343, già appartenuto ad un detenuto deceduto, e fu assegnato alla baracca 8 nella sezione dei detenuti lavoratori.
Nei sette mesi di detenzione Enrico Vanzini, oltre agli stenti dovuti alla fame, al trattamento disumano, al lavoro, alle epidemie, alla sete e al gelido inverno, fu testimone dell'orrore dei forni crematori: fu costretto infatti a lavorare per i nazisti nello smaltimento dei cadaveri nei crematori.
I forni crematori di Dachau erano due, uno molto piccolo dotato di un forno a doppia muffola installato dalla tristemente famosa ditta Topf nel 1940 in un capannone di legno dipinto in stile bavarese e accanto un altro molto grande in muratura dotato di una ampia sala d'incenerimento con quattro forni Kori e capace camera a gas, inaugurato nel 1943.
Secondo la sua testimonianza e quella di altri reduci, la camera a gas di Dachau, quella accanto alla sala dei forni nel crematorio grande, era assai operativa negli ultimi mesi prima della liberazione del campo. Il Vanzini fu testimone anche degli esperimenti su cavie umane eseguiti nel laboratorio medico del lager, in quanto costretto a prelevare i cadaveri delle vittime dal laboratorio per condurli sempre ai forni crematori.
Liberazione e testimonianza.
Il 29 aprile 1945 il campo di Dachau viene liberato. Enrico Vanzini è allo stremo ma riesce a sopravvivere. Quando torna a casa, da cui mancava da più di cinque anni, pesa 29 chilogrammi e i suoi genitori non lo riconoscono.
Poco dopo si trasferisce in Veneto, si sposa, ha due figli e lavora come autista di camion e pullman. Per sessanta lunghi anni non racconta la sua storia neppure alla famiglia. Solo nel 2005 decide di condividere quel dramma ed è così che la sua esperienza diventa prima un documentario, poi un libro, entrambi curati dal giornalista padovano Roberto Brumat.
Il 29 gennaio 2013, al Quirinale, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, gli conferisce la medaglia d’onore.
Poco dopo si trasferisce in Veneto, si sposa, ha due figli e lavora come autista di camion e pullman. Per sessanta lunghi anni non racconta la sua storia neppure alla famiglia. Solo nel 2005 decide di condividere quel dramma ed è così che la sua esperienza diventa prima un documentario, poi un libro, entrambi curati dal giornalista padovano Roberto Brumat.
Il 29 gennaio 2013, al Quirinale, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, gli conferisce la medaglia d’onore.
fonte: wikipedia e il BO, giornale on line dell'Università di Padova
martedì 20 gennaio 2015
La giornata della Memoria a Mestrino
Storia e Vita torna a Mestrino per la giornata della Memoria 2015.
Ospite d'onore: Enrico Vanzini, l'ultimo sonderkommando italiano, intervistato da Roberto Brumat.
La manifestazione sarà introdotta da un breve concerto di musica Klezmer-
venerdì 9 gennaio 2015
Il lungo esodo, il racconto
(Sergio Basalisco, Mestrino –PD, 6.02.2014)
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P Premessa
Sono diventato un esule la mattina del 6 febbraio 1947 sulla motonave Toscana che lasciava il porto di Pola, diretta a Venezia con la mia famiglia e altri 2000 profughi polesi, ormai consapevoli che entro qualche giorno l’ Italia avrebbe firmato il trattato di pace impostole dai vincitori e avrebbe ceduto alla Jugoslavia gran parte del territorio giuliano acquisito nel 1918 ,al termine della Grande guerra in cui 680.000 soldati italiani erano morti (insieme a centinaia di migliaia di civili) ed altri 700.000 erano stati resi invalidi (cfr. M. Thompson, La guerra bianca: vita e morte sul fronte italiano 1915-1919, Saggiatore, MI 2009).
Credo si dovrebbero ricordare tutti gli esodi, a partire da quello dei 50.000 sloveni e croati che tra le due guerre mondiali lasciarono la Venezia Giulia divenuta parte del regno d’Italia che non seppe e non volle gestire con lungimirante giustizia territori storicamente multietnici, fino ai 12 milioni di europei(polacchi, tedeschi, ungheresi,..) che prima e dopo il 1945 dovettero abbandonare case , campi , officine , botteghe e uffici a seguito di trasferimenti forzati in territori diversi da quelli in cui erano nati (cfr. E.Collotti, Gli spostamenti di popolazione nell’Europa Centrale e nei Balcani, Bollati-Boringhieri,TO 2009). Tra loro si collocano i 300.000/350.000 istro-veneti, italiani delle vecchie province ed anche slavi (non meno di 40.000) che tra il 1945 e il 1956 esodarono dalla Venezia Giulia divenuta territorio jugoslavo.
Coltivare la memoria delle vicende legate alle foibe e all’esodo giuliano senza conformismi nazionalistici o ideologici si rende possibile se si ha la consapevolezza che quelle vicende vanno situate nel quadro degli orrori perpetrati nel Novecento europeo. Nel secolo dei soldati soffocati dai gas nelle trincee della Grande Guerra a Ypres, a Verdun e sul monte San Michele , dei milioni di sterminati nei lager hitleriani e nei gulag staliniani, dei 230 ragazzi antifascisti rastrellati e impiccati con i cavi del telefono sulla spianata di Bassano , dei 5000 militari italiani che a Cefalonia furono fucilati, bruciati, annegati per non aver accettato di proseguire la guerra a fianco dei nazisti , dei 2000/15.000 infoibati in Istria tra il 1943 e il 1945 e dei 10.000 musulmani bosniaci massacrati dalle truppe serbe a Srebrenica nel luglio 1995. L’ Europa e il mondo hanno bisogno di ricordare e far ricordare questi orrori ,nel tentativo di liberarsi della pericolosa propensione alla catalogazione gerarchica degli umani ( cfr. L.Cavalli Sforza- D. Padoan, Razzismo e Noismo , Einaudi, TO 2014) in portatori di sedicenti civiltà superiori e votati al dominio , necessariamente contrapposti ai barbari privi di cultura e di storia, destinati al servaggio o allo sterminio. Le giornate della Memoria e del Ricordo eviteranno il pericolo di scadere nella ritualità se recupereranno l’insegnamento di Walter Benjamin : Avremo veramente elaborato il lutto solo quando saremo riusciti a comprendere i dolori e le speranze di tutte le vittime.
Storia e microstoria
Nella Venezia Giulia asburgica le popolazioni italiane , prevalenti a Trieste e nelle città costiere dell’Istria, e quelle slovene e croate , maggioritarie nell’entroterra, svilupparono una convivenza sostanzialmente pacifica fino agli anni Sessanta dell’ Ottocento. Molti slavi cercavano e trovavano lavoro sulla costa, imparavano l’ italiano e con i vicini italiani avevano in comune la religione e un diffuso rispetto per il carismatico imperatore Francesco Giuseppe e la sua buona amministrazione dei territori.
La casa natale a Pola |
Nella Venezia Giulia asburgica le popolazioni italiane , prevalenti a Trieste e nelle città costiere dell’Istria, e quelle slovene e croate , maggioritarie nell’entroterra, svilupparono una convivenza sostanzialmente pacifica fino agli anni Sessanta dell’ Ottocento. Molti slavi cercavano e trovavano lavoro sulla costa, imparavano l’ italiano e con i vicini italiani avevano in comune la religione e un diffuso rispetto per il carismatico imperatore Francesco Giuseppe e la sua buona amministrazione dei territori.
La tomba del pediatra, ungherese |
Ma è indubbio che anche nella multietnica Pola (dove il censimento del 1890 registrò la presenza di 19.000 italiani, 10.000 croati, 4500 austriaci e 1500 sloveni) finì per prevalere la netta contrapposizione etnico-nazionalistica tra italiani e slavi che improntò le associazioni religiose e sportive, le casse di credito, le bande musicali , i circoli di lettura,… . In un clima che fatalmente isolò i circoli operai tendenzialmente internazionalisti.
Mio padre era un “regnicolo”, proveniente cioè dalle vecchie province italiane, terrone di Lucania, classe 1899, tolto – a causa degli eventi della prima guerra mondiale- agli studi di ragioneria e inviato prima sulla linea del Piave e poi a Trieste e subito dopo a Pola, dove conobbe e sposò mia madre. Se mio padre poteva essere definito come politicamente refrattario, con un atteggiamento da meridionale perplesso e scettico di fronte ai rivolgimenti politici, molto più caratterizzata era la famiglia di mia madre. Il nonno materno era un operaio dell’ arsenale navale di Pola, che aveva messo insieme tre figli di un precedente matrimonio con i quattro avuti da mia nonna , nata a Rovigno in una famiglia di piccoli proprietari terrieri.
lunedì 5 gennaio 2015
Corso di scrittura, secondo livello
Riparte l'8 gennaio, con il secondo livello, il corso di scrittura promosso dall'Associazione Storia e Vita, maestro Angelo Ferrarini.
Per nuove iscrizioni telefonare al 340-2651480 o venire direttamente in biblioteca giovedì 8 gennaio alle 21.
Superfluo fare un bilancio dalla parte degli organizzatori, meglio dare voce alle opinioni dei corsisti:
"Per quanto riguarda il corso, l'ho trovato stimolante, posso dire come sempre? come sempre! Mi ha fatto anche molto piacere che ci siano stati nuovi iscritti, anche loro fonte di ispirazione e preziosi per allargare la nostra esperienza e per confrontarsi. Peccato che due ci abbiano lasciato anzitempo. La biblioteca anche mi è sembrata ottima come spazi e come struttura, accogliente e funzionale. Tutto bene quindi! Esperienza positiva promossa a pieni voti." Alessandra
"Interessante la strutturazione, che promuove:
-la conoscenza di nuovi scrittori e l’approfondimento degli stili dei più conosciuti e affermati (Hemingway, Carver), stimolando la riflessione e la critica.
-lo scambio di testi tra corsisti, letti e commentati dai componenti il gruppo; utili i consigli, sia da parte del conduttore che dei frequentanti, per il miglioramento dello stile.
-un clima di rispetto, interesse, amicizia tra i partecipanti che si sentono accettati ed apprezzati.
A conclusione del primo livello, ritengo di aver acquisito qualche strumento in più per il miglioramento della mia capacità di espressione attraverso la scrittura." Donatella
domenica 4 gennaio 2015
venerdì 2 gennaio 2015
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